uno dei due è l'altro

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domenica 25 giugno 2017

Tamburi assemblati. Lo strumento inventato dal jazz.



Art Blakey


Il solo strumento inventato per e nel jazz. Quello in cui sfociano, al termine di un lungo viaggio oceanico, le percussioni africane, le quali incrociano al passaggio nel nuovo mondo i tamburi militari europei:



La Batteria

 

 

 



 








  L’ idea di assemblare dei tamburi, dei piatti e dei mezzi di percussione diversi – per metterli a disposizione di un singolo musicista, mentre invece nelle fanfare questi pezzi sono adoperati da strumentisti differenti – risale indubbiamente alle orchestre da circo del XIX secolo. Molti spettacoli itineranti avevano d’altronde la loro orchestra e i musicisti neri vi erano numerosi. D’altra parte accadeva alle fanfare di New Orleans di prodursi nei balli e di passare così, in modo del tutto naturale, dalla marcia alla danza. Il gesto decisivo fu quello della messa a punto del pedale della grancassa (una semplice mazza di legno azionata dal piede) e la leggenda l’attribuisce al batterista DeeDee Chandler nel 1895.




Si potrebbe scrivere la storia del jazz a partire dai cambiamenti di funzione di ciascuno degli elementi costitutivi della batteria dal momento della loro messa in pratica. I primi batteristi svolgevano evidentemente la funzione metronomica di marcatura dei tempi, ma la loro esecuzione non è così meccanica e sistematica come a volte è stato detto: sapevano far variare il loro accompagnamento nel corso di uno stesso pezzo (si è spesso associato al jazz di New Orleans la nozione di two-beat (1), ma nel 1923, per esempio, la Creole Jazz Band di King Oliver suona i quattro tempi.






Certamente le registrazioni degli anni ‘20 non sono sempre delle testimonianze che rendono giustizia allo stile dei batteristi: i tecnici del suono hanno avuto grandissime difficoltà a rendere la batteria ed è spesso successo che essi abbiano chiesto al batterista di non suonare i tamburi e la grancassa: è così nelle registrazioni dell’ Hot Seven di Louis Armstrong, Baby Dodds suona unicamente il piatto crash… Ma i trio di Jelly Roll Morton, nel 1929, permettono di verificare la varietà di esecuzione di Zutty Singleton. E gli assolo di dimostrazione registrati da Baby Dodds molto più tardi (1946), con mezzi tecnici più adatti, confermano che la batteria di New Orleans non era povera: si può per esempio constatare quanto siano importanti le radici africane nello stile di Baby Dodds, nel quale si ritrovano frasi intere di tamburo congolese…


Gli altri grandi batteristi dello stile New Orleans sono Paul Barbarin, i fratelli Tubby e Minor Hall, Ben Pollack, Tony Sbarbaro, Kaiser Marshall e, più tardi Sonny Greer. Ma la batteria è considerata allora – e fino alla metà degli anni ‘30 – innanzi tutto come strumento di accompagnamento il cui ruolo è certo di primaria importanza, ma che non è supposta intervenire come solista, salvo che in breaks di due misure. Si dice che Zutty Singleton fu il primo batterista ad eseguire degli assolo completi in orchestra. 





I primi virtuosi della batteria eredi diretti dei maestri di New Orleans appaiono nella metà degli anni ‘20 a Chicago: Gene Krupa, George Wettling e Dave Tough. Precursore dei batteristi Swing Walter Johnson, sin dal 1930, nell’orchestra di Fletcher Henderson, suona sistematicamente lo chabada sul charleston per segnare il tempo, mentre il basso e la chitarra segnano i quattro tempi uguali: questa combinazione di due sistemi ritmici domina, quasi immutata fino agli inizi degli anni ‘40. E’ un modo di accompagnare poco variato ma che assicura la coesione – e anche la scioltezza – del trio ritmico chitarra-basso-batteria. Il trio di Count Basie con Jo Jones (a partire dal 1936) rappresenta perfettamente questa formula.

E’ a questo momento che la batteria comincia a farsi ascoltare in assolo nelle big band: Chick Webb, Gene Krupa, Big Sid Catlett (uno degli accompagnatori più lucidi e dei solisti più inventivi), Cozy Cole, James Crawford, Lionel Hampton. Il batterista diviene già un’attrazione, una vedette dell’orchestra.






La rivoluzione della batteria avviene con il bebop nel 1945 e grazie alle innovazioni di Kenny Clarke. Sin dall’inizio degli anni ‘40, egli opera un insieme di spostamenti dalle conseguenze considerevoli: mentre, fino ad allora, il tempo è battuto sulle casse e le punteggiature sui piatti, egli rovescia il dispositivo e segna il tempo con lo chabada sul grande piatto ride, mentre invece il charleston segna i tempi deboli, e il rullante e la grancassa servono a punteggiare il discorso del solista (la grancassa manda anche, di tanto in tanto, delle “bombe”, cosa che era stata già fatta, ma che Kenny Clarke ha sistematizzato e reso più complessa). Si afferma così l’indipendenza dei quattro arti del batterista, inseguito alla quale può nascere tutta la batteria moderna.





Ma è anche la funzione stessa della batteria che è cambiata: da strumento per il ballo è diventato strumento da concerto. Con Max Roach, d’altra parte, la batteria si rivela ancor più strumento melodico capace di fraseggiare e di modulare i suoni: egli libera la batteria dal peso della sezione ritmica e la rende voce musicale in grado di sostenere e di sviluppare lunghi discorsi. Questo nuovo approccio è quello di tutta una generazione di batteristi, ciascuno dei quali apporta una sua propria sonorità: Art Blakey, con il suo afrocubanismo e il suo pressing roll; Philly Joe Jones, che fa uscire il pedale charleston dal battito regolare; Denzil Best, il migliore specialista delle spazzole; Roy Haynes, e la sua battuta secca che evoca i suonatori di timpani cubani; Jo Jones, Art Taylor, Connie Kay, Jimmy Cobb, J. C. Heard, Tinny Kahn, Shelly Manne. Frank Butler, Chico Hamilton, Stan Levey, Albert Heath, Dannie Richmond, Louis Hayes, Charlie Persip
 





Parallelemente all’esplosione del bebop negli anni ‘40-’50, l’arte della batteria si rinnova anche nelle grandi orchestre, per conoscere forse il suo apogeo con batteristi come Louie Bellson (uno dei primi ad utilizzare due grancasse), Buddy Rich (il drummer più energico e rapido che si sia mai conosciuto), Gus Johnson, Sonny Payne, Sam Woodard (mago del tempo e delle atmosfere sonore) e Mel Lewis, di un’efficacissima sobrietà.

Con Elvin Jones, negli anni ‘60, a parte la potenza di battuta, entra in scena un nuovo modo di punteggiare o piuttosto di nutrire il flusso musicale: poliritmico, esso sostituisce alle figure abituali delle autentiche sequenze che giocano su più misure o gruppi di misure e che avvolgono la voce solista – in questo caso quella di John Coltrane – in un tessuto percussivo estremamente ricco e cangiante.





E’ aperta la strada a un tempo più libera e più complessa. Non vi sono più elementi della batteria a cui sia attribuita una funzione precisa e fissa. I batteristi giocano liberamente con i timbri, con i ritmi, che sovrappongono o fanno variare, e disegnano così una musica nella musica. Ed Blackwell e Billy Higgins, agli inizi dell’avventura del free jazz con Ornette Coleman, mettono in atto una totale libertà metrica, pur dispiegando un fraseggio di una chiarezza esemplare e un solido swing.

Con loro: Al Foster, Paul Motian, Andrew Cyrille, Daniel Humair, Pierre Favre, Sunny Muray, Beaver Harris, Milford Graves, Cherles Moffett, Rashied Ali, Joe Chambers, Tony Oxley






Jack Dejohnette e Tony Williams, entrambi rivelati da Miles Davis, continuano sulla strada aperta da Elvin Jones controllando perfettamente la pulsazione: lontana dal sistematico chabada, essa è piuttosto suggerita o percepita che esplicitamente marcata, e ciò permette una più attiva partecipazione del batterista all’esecuzione di insieme.All’opposto, l’emergere negli ‘70 del jazz-rock conduce la batteria a una sorta di ritorno vero concezioni più semplici e più sottolineate della pulsazione, dietro la pressione della musica da ballo (rhythm and blues, rock and roll). Grancassa e tamburi ridiventano i principali marcatori del tempo. Questa tendenza alla semplificazione non esclude certe ricerche ritmiche in batteristi come Bernard Pretty Purdie, Billy Cobham, Lenny White, Alfonse Mouzon … I tentativi del jazz “fusion”, senza rinunciare al ritmo binario, fanno ritrovare alla batteria varietà e scioltezza – Steve Gadd o Peter Erskine





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1) nel jazz, accentuazione, da parte della sezione ritmica, del primo e del terzo tempo della battuta, tipica del dixieland




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Fonte: Dizionario Jazz di Philippe Carles, André Clergeat, Jean Louis Comolli. Curcio editore, 1989





 

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