uno dei due è l'altro

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lunedì 25 gennaio 2016

Seydou Keita - Ritratti dall'Africa





Seydou Keita è uno dei padri della fotografia africana. Nato a Bamako intorno al 1921 e morto nel 2001, all’età di 80 anni più che per la  tecnica si distingueva per la sua straordinaria qualità nel “vedere”, grazie alla quale le persone ordinarie che posano per i suoi ritratti si trasformano in principi e regine.





“Incontrai la fotografia nel 1945, a Bamako. Allora non sapevo nulla di tecnica fotografica, così ho iniziato facendo tutto da solo. Usavo una macchina 6x9 che mio zio mi portò in regalo dal Senegal. All’inizio fotografai la mia famiglia. Tre anni dopo, Mountaga Kouyate, un fotografo che possedeva un suo laboratorio, ritenendo che oramai avevo imparato ciò che serviva, mi lascò il suo studio. “





­“Facevo tutto da solo, foto, sviluppo e stampa. Allora c’erano cinque fotografi a Bamako, Youssouf Traoré, Boudjala Kouyaté, Mountaga Kouyaté, Moumoune Koné e io, mentre Malick Sidibe arrivò dopo. Eravamo tutti specializzati in ritratti, ma la gente diceva che i miei erano i migliori.”







“I clienti entravano in studio e io li fotografavo. Durante la settimana venivano uno alla volta, ma il sabato arrivavano a centinaia, e in strada, davanti alla porta del mio studio, si formava una lunga fila. Veniva gente di ogni classe sociale. Capitava che facevo scegliere loro dei vestiti, poi gli suggerivo la posizione da prendere e scattavo. In tutto ci mettevo pochi minuti per ciascuno.”








Le sue foto, tutte in bianco e nero perché Seydou lo preferiva, sono un mirabile equilibrio tra i giochi grafici dei tessuti dei vestiti e degli sfondi e la forza umana dei lineamenti e delle pose.






“Il mio primo sfondo fu una coperta di un letto. Tenevo gli stessi sfondi montati per un paio d’anni, poi li cambiavo. A volte i disegni sullo sfondo si armonizzavano con i vestiti dei soggetti che dovevo fotografare, soprattutto delle donne. Ma erano casi fortunati.”






“In quel periodo la cultura dei nostri antenati stava iniziando a disintegrarsi. Gli abitanti della città iniziarono a indossare vestiti in stile europeo, influenzati dalla moda francese. Ma non tutti volevano vestirsi all’europea nel mio studio. Io avevo tre set di vestiti, con cravatte, camice, scarpe e cappelli, più alcuni oggetti, come penne, fiori di plastica, radio e telefoni. I clienti potevano scegliere di usarli per posare.”





"Le più esigenti erano le donne. Io le mettevo in posa e sistemavo i loro voluminosi vestiti. Era necessario che la loro bellezza fosse impressa nelle foto. Mani allungate, dita affusolate, gioielli; c’erano molti particolari importanti a cui le donne facevano attenzione perché era un segno di salute, di eleganza e bellezza.”







"Non ho mai incontrato fotografi europei ne visto le loro fotografie. Non sono mai uscito dal Mali, e qui non arrivavano rivista francesi o americane.”







Ritiratosi dal lavoro nel 1977, la sua eredità comprende oltre 10.000 negativi in grande formato perfettamente conservati. Alcune delle sue foto sono esposte in importanti musei, come il Metropolitan di New York.








lunedì 18 gennaio 2016

Perché le sinistre hanno fatto proprie le idee del neoliberalismo?


Presento due significativi capitoli tratti dal libro  "Il Colpo di Stato di Banche e Governi" (2013) del sociologo Luciano Gallino, da poco scomparso.



Balthus, Three sisters (1954)
***



Dal Capitolo nono
La crisi come modalità di governo delle persone


 La crisi come forma di governo globale 

Le tecniche di governo della condotta di masse di persone hanno avuto un campo di applicazione, straordinario per le dimensioni nonché per la dismisura della posta in gioco, nelle vicende della crisi economica e finanziaria apertasi nel 2007 e tuttora in corso, con effetti devastanti nella Ue. In Quest'ultima sezione proverò a riassumere i tratti principali della crisi vista come un gigantesco e (almeno finora) riuscito esperimento di controllo sociale globale per mezzo del mercato; il quale esperimento, peraltro, potrebbe essere incappato in serie difficoltà.

In particolare mi soffermerò (I) sui modi in cui la crisi economica viene raccontata o narrata, ovvero sui modi in cui i media, i governi, i think tanks che forniscono loro gli argomenti, insieme con un buon numero di accademici, hanno presentato e presentano la crisi stessa; (II) sui processi di colpevolizzazione delle vittime, coloro che in realtà hanno «sopportato i maggiori costi sociali e umani della crisi senza averne alcuna responsabilità›› ; infine (III) su alcune interpretazioni della crisi che individuano in essa, nella sua globalità, una forma riuscita di governo delle popolazioni quantomeno dei Paesi sviluppati, oppure un'espressione del suo fallimento.

(I) I media e gli altri attori sopra richiamati hanno in generale rappresentato la crisi, soprattutto nel periodo 2008-2009, come un disastro naturale, massiccio e inaspettato  (1)L'espressione «tsunami finanziario ›› ha fatto il giro del mondo. Economisti e commentatori economici si sono spesso riferiti a essa come a «un terremoto». Ampio corso hanno avuto i paragoni con catastrofiche eruzioni vulcaniche: in una trasmissione della Bbc del 2008 la crisi fu paragonata al Krakatoa, il vulcano dell'isola di Sumatra che esplose nel 1883 uccidendo tremila persone. Usato di frequente fu anche il termine “ciclone”.

Nella prospettiva delle tecnologie di governo sin qui tratteggiata, la rappresentazione della crisi quale disastro naturale del tutto inatteso ha avuto la funzione preminente di sospingere al fondo della scena pubblica, se non anzi di rimuovere totalmente, la necessità urgente di procedere a una spiegazione strutturale delle sue cause. Al posto di questa l’attenzione, nel mezzo della scena, è stata diretta sui “banchieri avidi” ovvero sui truffatori alla Madoff; che di certo sono esistiti ed esistono, ma hanno avuto in realtà un ruolo marginale rispetto alla struttura globale del sistema finanziario. In primissimo piano è stato sospinto, specialmente negli Usa e in Gran Bretagna, il ruolo del governo come salvatore. Il che equivale a configurare il ruolo dei cittadini come «soggetti finanziari traumatizzati››, i quali sono stati salvati dal saggio e rapido intervento del governo, giusto nel momento in cui ne avevano disperatamente bisogno (2)

I governi hanno speso impegnato trilioni per impedire il fallimento delle maggiori banche: ma lo hanno fatto, spiegano, per il solo bene dei cittadini. Come ebbe a dire Gordon Brown, primo ministro britannico, mentre a inizio 2008 la crisi del sistema bancario esplodeva nel suo Paese e il governo correva a tamponarla iniettando in esso centinaia di miliardi di sterline: «Voglio che sappiate che stiamo facendo questo per voi›› (3).

(II) Dalla primavera 2012 in avanti la narrazione ufficiale e mediatica della crisi è stata rivolta a un diverso scopo di governo: la diffusione tra la popolazione di un senso di colpa.

Nella Ue, non meno che negli Usa, i bilanci pubblici erano stati semisvuotati nel biennio precedente dalle spese e dagli impegni di spesa assunti per fornire un sostegno considerato indispensabile agli enti finanziari. Ricordiamo che il totale di tali spese e impegni ha toccato i 4,6 trilioni di euro, secondo una dichiarazione resa nell'autunno 2011 del presidente della Ce, Barroso.

A causa di tali spese il debito pubblico totale della Ue è salito in media di venti punti in meno di tre anni, dal 60 a oltre l'80 per cento. A onta dell’enorme sostegno ricevuto, numerose banche europee, a partire da buona parte di quelle tedesche, continuarono ad essere (e molte sono tuttora) in condizioni traballanti.

Pertanto le banche convinsero i governi di due cose: che avevano bisogno di altri capitali, e che nel caso in cui qualche Paese non potesse rimborsare i titoli sovrani alla scadenza alcune di esse, tra le maggiori, potevano crollare. D'altra parte i bilanci pubblici erano ormai esausti; lo stesso intervento della Bce a favore delle banche non poteva durare all'infinito (in verità è durato a livello di trilioni di euro fino alla primavera 2012, ma nessuno allora poteva saperlo). Perciò era necessario, conclusero i governi assillati dalla situazione critica delle banche, rimpolpare i bilanci pubblici aumentando le entrate fiscali e tagliando la maggior fonte di spesa, che è la spesa sociale: pensioni, sanità, istruzione, sostegni al reddito per i lavoratori disoccupati, poveri o sottopagati.

Sarebbe stato realmente arduo convincere della validità di un simile schema interpretativo i cittadini, nel caso si fosse raccontata loro la verità. Perciò i governi hanno provveduto a costruire una seconda verità, volta a diffondere nella popolazione, al fine di controllarne l’atteggiamento, la convinzione soggettiva di aver partecipato a causarla (4). Abbiamo individuato senza alcun ragionevole dubbio, suona la seconda verità di fonte governativa, i responsabili della crisi: siete voi stessi. Ecco il messaggio trasmesso dai governi ai cittadini. Per oltre una generazione, hanno dichiarato i primi, siete vissuti al di sopra dei vostri mezzi. Riferendosi a un sistema sanitario che assicura cure adeguate a ciascuno, pressoché gratis; pensioni pubbliche, a loro dire, eccessivamente generose; l'istruzione gratuita o erogata a fronte di tasse d'iscrizione minime. 

Sono, tutte queste, forme di spesa pubblica in cui i governi del passato hanno esagerato, ci viene comunicato, e di cui tutti voi avete troppo a lungo goduto, rendendovi corresponsabili dello sperpero. Da parte nostra siamo stati eletti o nominati, hanno asserito i governanti, precisamente per porre rimedio agli esiti dei vostri sperperi.





Codeste tecnologie della governamentalità, miranti a creare nel maggior numero di persone un profondo senso di colpa facendo loro credere di avere davvero contribuito, loro e soprattutto i loro genitori, a prosciugare il bilancio dello Stato, hanno avuto un rimarchevole successo. Non è qui il luogo per inoltrarsi in un'argomentazione tecnica intesa a dimostrare che l'asserto di aver vissuto al di sopra dei propri mezzi; di avere contratto un debito di decine di migliaia di euro pro capite che ricadrà sul capo di figli e nipoti; di dover ridurre drasticamente il perimetro dello stato sociale perché questo si fondava su una smodata e irresponsabile generosità (a fini elettorali o altro), non hanno in realtà il minimo fondamento. 

In massima parte la spesa previdenziale e sanitaria è finanziata direttamente dai cittadini e dalle imprese coni loro contributi, non dallo Stato. Basterà qui notare che la riuscita creazione di un diffuso senso di colpa tra la popolazione perché avrebbe smodatamente approfittato del bilancio pubblico, è probabilmente una delle ragioni che spiegano come mai, a onta dei durissimi programmi di austerità imposti dai governi Ue, gli elettori continuino a votare in massa per gli stessi partiti che hanno coniato e praticato queste tecnologie del sé; e altresì come mai le persone che protestano occasionalmente nelle piazze europee contro detti programmi si contino, e solo occasionalmente, a decine di migliaia, anziché decine di milioni.


(III) E se, dopotutto, la crisi in corso non fosse essa stessa che una suprema forma di governamentalità, diretta a sussumere nell'ambito dell'economia e della sua inesorabile razionalità strumentale l'intera popolazione del mondo occidentale?

«La questione chiave - è stato scritto a inizio 2012 da due economisti non allineati, a cinque anni ormai dall'inizio della crisi - non è se le modalità di governo (governance) dovrebbero rispondere meglio alla crisi finanziaria, ma come dobbiamo attrezzarci per comprendere che la crisi è una modalità di governo ›› (5).

Una volta accertato che la finalità ultima della dottrina neoliberale è la costruzione e la diffusione dell'Homo aeconomicus in tutto il mondo, si può supporre che essa si trovi dinanzi a un problema di tempi e di risorse. Il suo successo nel perseguire la suddetta finalità mediante esseri economici che costruiscono un mondo a loro somiglianza, il quale circolarmente riproduce senza posa esemplari di Homo aeconomicus, è indubitabile. Ma per conseguire tale successo c'è voluto piú di mezzo secolo: e risorse immani al fine di insediare milioni di tali esemplari nei governi, negli enti locali, nei partiti, nei media, nelle università. A loro volta questi soggetti hanno avuto bisogno di tempo per porre mano all'elaborazione e all'imposizione di politiche neoliberali in ogni sfera dell'esistenza.

Una crisi drammatica e realissima come quella esplosa nel 2007 rappresenta quindi un mezzo assai efficace al fine di ridurre drasticamente i mezzi e le risorse necessarie per attuare dovunque le forme di governamentalità che il progetto neoliberale esige, sostituendole con l'autodisciplina introiettata dall'Homo aeconomicus. Messi di fronte ai rischi disvelati di colpo dalla «finanza traumatica›› (6) - rischi gravissimi quali un crollo generale dell'economia, grandi banche che falliscono ingoiando i risparmi di masse di lavoratori, Stati che non riescono più a pagare gli stipendi - governi e cittadini hanno accettato in massa, dando luogo a un tasso minimo di proteste, di comportarsi nel pubblico e nel privato come esigono le politiche di austerità. I governi hanno stanziato trilioni di dollari e di euro allo scopo di salvare gli enti finanziari. 

Da parte loro i cittadini hanno creduto alla narrazione per cui la crisi nasce dal debito pubblico degli Stati e non dal debito privato delle banche e più in generale dalle sregolatezze della finanza, e alla necessità delle politiche di austerità che il suo risanamento esige. Ciò che più colpisce (o dovrebbe colpire) è che lo svuotamento del processo democratico che esse hanno comportato e comportano non sia stato, in pratica, nemmeno oggetto di discussione. Bisogna quindi ammettere che, laddove si accolga il quadro dell'epistemologia popperiana, l’ipotesi che la crisi in corso sia l'opera somma della governamentalità neoliberale, che essa stessa sia l'ultima eccelsa forma di governamentalità, non è certo agevole da confutare.

Non possiamo però esimerci dal notare che tra le interpretazioni dei rapporti stretti che intercorrono tra crisi e governamentalità neoliberale, ha avuto un certo spazio pure l’ipotesi contraria: che la crisi, cioè, non sia un'affermazione globale di codesta forma di governamentalità, bensì un segno di come sia proprio questa a essere entrata in crisi, almeno nelle forme attuali.

Come sappiamo la crisi finanziaria è stata innescata, dopo un lungo periodo di stagnazione dell'economia mondiale, da due fattori complementari: un eccesso di credito concesso dalle banche e trasferito fuori bilancio, nella finanza ombra, per mezzo della sua trasformazione in titoli commerciali, e un eccesso di debito contratto dalle famiglie. L'uno e l'altro sono l'ésito di un programma politico inteso a diffondere l’individualismo patrimoniale, centrato sulla proprietà della casa. Presentata come un motore dell'economia da attivare per uscire da un lungo periodo di stagnazione, essa sarebbe al tempo stesso, da un lato - in conformità a quest'altra ipotesi - una tecnica di governo della condotta delle persone, e dall'altro una nuova modalità di accumulazione del capitale mediante la produzione diretta di denaro, davanti al venire meno dell'accumulazione mediante la produzione di merci. 

I gravi limiti dell’una e dell'altra sono emersi all'improvviso nel 2007-2008. Di qui l’interpretazione della crisi come una crisi repentina delle modalità di governo del comportamento per mezzo della manipolazione del credito, del debito e del denaro (7).
I procedimenti volti a costruire l'Homo ceconomicus, insieme con quelli da esso seguiti per costruire il mondo contemporaneo, sono stati oggetto negli ultimi lustri di innumerevoli rilievi critici. Nondimeno tale modello umano e il mondo che ha costruito, e dal quale è senza posa riprodotto, sono tuttora il modello e il mondo dominanti. Benché sembri che la cultura e la politica non se ne rendano affatto conto, il loro superamento è uno dei maggiori- compiti che la crisi erige di fronte a esse.




Dal Capitolo decimo
Rigettare le teorie economiche neoliberali


Perché le sinistre hanno fatto proprie le idee del neoliberalismo? 

Dal 1980 in poi i partiti socialisti in Francia e in Spagna, i socialdemocratici in Germania, i laburisti nel Regno Unito, i postcomunisti in Italia fino al Pd, hanno fatto proprie le idee di fondo del neoliberalismo e le hanno messe in pratica appena sono giunti al governo, in specie sotto forma di liberalizzazione incontrollata della finanza. Tuttavia la conversione delle sinistre alle dottrine neoliberali è avvenuta non solo quando erano al governo, ma pure quando erano all'opposizione.

In effetti, diversi Paesi Ue hanno conosciuto governi di destra, incorporanti alle radici le dottrine neoliberali, come in Italia i governi Berlusconi tra il 2001 e il 2011, e il governo Monti del 2011-12, i quali hanno avuto di fronte delle opposizioni di centrosinistra le quali si proponevano di discutere, e sotto il profilo epistemico erano capaci di discutere, unicamente del valore da attribuire alle variabili di un'equazione complessa che i governi stessi prospettavano per rimediare alla crisi, quale che fosse il suo campo di applicazione. Nel quadro di una conformità integrale alle dottrine neoliberali. 

Tale situazione si è generalizzata, poiché in tutti i Paesi le opposizioni, salvo poche formazioni dal peso pubblico ed elettorale esiguo, hanno perso da decenni la capacità di confutare o rifiutare l’equazione per proporne un'altra strutturalmente  diversa. Pertanto l'espressione “pensiero unico” sembra piuttosto flebile per designare l’omogeinizzazione della capacità di giudizio indotta da una dottrina intrinsecamente totalitaria, qual è l'onnì-neoliberalismo, che si osserva nella gran maggioranza dei componenti dell'arco politico.

Come è stato possibile?





Un fattore poco studiato di sviluppo del totalitarismo neoliberale, che aiuta a spiegare come mai persino partiti che si definiscono progressisti l'hanno condiviso, proviene da circostanze al tempo stesso biografiche e politiche: alla sua stessa elaborazione hanno infatti contribuito in misura ragguardevole anche le sinistre europee. Tale predicato viene qui circoscritto ai socialisti francesi e italiani, ai partiti successori del Pci, ai laburisti britannici, ai socialdemocratici tedeschi, nonché alle analoghe formazioni che con nomi simili esistono in altri Paesi Ue. 

Si è appunto notato che la liberalizzazione dei movimenti di capitale è stata vigorosamente avviata in Europa nei primi anni Ottanta, in sincronia e in certi casi con anticipo sugli Usa, da governanti e politici socialisti. Tuttavia la presa del neoliberalismo sulle sinistre, se non anzi la resa di queste a quello, ha operato su terreni molto più vasti. Uno di essi è stata la “terza via” inaugurata dal Labour britannico e diffusasi in Germania, Olanda, PortogalloSvezia, Danimarca, Italia, Belgio

L'idea guida della terza via era che non hanno più senso le contrapposizioni fra destra e sinistra; Stato e mercato; capitale e lavoro. Un suo corollario era un orientamento decisamente positivo nei confronti delle corporations e della finanza, e una riformulazione degli interessi collettivi in termini individualistici (8).

La terza via è stata sicuramente una delle multiformi divise - o maschere - indossate dal neoliberalismo. Ma alle origini di quest'ultimo, in campo economico, hanno contribuito diverse linee di comunicazione, funzionanti tra l'Ovest capitalista e l'Est socialista fin dagli anni Sessanta. Le ha ricostruite su solide basi storiografiche una sociologa americana, Johanna Bockman. Uno stimolo importante per la nascita del neoliberalismo fu la “teoria della convergenza”, da taluni solo prevista e da altri auspicata, fra il capitalismo occidentale e il socialismo dell'Europa orientale. Tale teoria, oggetto di numerose pubblicazioni in quel decennio, sosteneva che sebbene si fossero formate su basi politiche, economiche e sociali del tutto differenti, le società capitaliste e quelle socialiste andavano ormai convergendo verso un medesimo tipo di società, la società industriale. 

Entro le società riconducibili a questa nuova specie sociale, quale che fosse la loro storia pregressa, stavano sorgendo esigenze del tutto analoghe allo scopo di pianificare la produzione e i consumi; regolare lo sviluppo; gestire la distribuzione e l’investimento del surplus; sostenere la trasformazione dello stile di vita (9).

Persino uno degli economisti eterodossi dell'epoca, John K. Galbraith, ebbe a scrivere che era allora in atto fra il sistema sovietico e quello occidentale “un'apprezzabile convergenza verso la stessa forma di pianificazione” (10).

Al contributo dell'idea di convergenza alla nascita del neoliberalismo sotto insegne socialiste, la Bockman ha aggiunto altri fattori. Uno fu il fiume di discussioni che si svolsero di qua e di là dell'Atlantico, nel quale si incrociavano la critica allo stalinismo e le riforme economiche nell'Europa orientale con la fine del fordismo in Occidente e il sorgere di nuovi movimenti sociali. Vi sono tre ragioni, secondo l'autrice, per attribuire almeno in parte origini socialiste al neoliberalismo e alle sue teorie economiche. 

La prima è l'idea che all'economia giova comunque la presenza di un piano nel ruolo di “dittatore benevolo”. Il piano centralizzato e burocratico dell' Urss era fallito; tuttavia un piano distribuito e libero di autoregolarsi di momento in momento, poiché dispone di un'informazione completa in merito a costi e preferenze, poteva sostituirlo con superiore efficacia. Questo “pianificatore sociale” è ovviamente il mercato. 

In secondo luogo diversi modelli degli economisti socialisti apparivano rilevanti per l'economia neoclassica, ivi compresi “modelli astratti di pianificazione centrale e decentrata, esperimenti sul terreno di socialismo di mercato, modelli ed esperimenti di autogestione operaia, cooperative e altro” .




 Una terza ragione che lascia intravedere idee e modelli socialisti nell'ascesa del neoliberalismo è il presupposto, condiviso da numerosi economisti neoclassici, che il socialismo avrebbe fornito le condizioni più favorevoli per lo sviluppo dei mercati (11).

Un ulteriore fattore di ibridazione tra economia socialista ed economia neoclassica fu l'incontro in spazi per cosí dire extraterritoriali fra politici e studiosi dei due campi che avevano interesse a comprendere quali fossero le basi sociali, economiche, culturali dell'altra parte; un interesse coltivato in certi casi per dimostrare con fondati argomenti la superiorità del proprio
campo su quello avverso, ma sovente anche al fine di trarre dal confronto indicazioni idonee a migliorare il funzionamento di quello di appartenenza (12).

In tali spazi, come documenta la Bockman, esercitò un’influenza internazionale un'istituzione italiana, il Centro studi e ricerche su problemi economico-sociali (Ceses). Fondato a Milano da Confindustria nel 1964 con un ragguardevole stanziamento, cui si aggiunsero i contributi di diverse fondazioni americane di destra, il Ceses fu attivo fino al 1988. La maggior parte dei suoi componenti e istruttori provenivano dal Pci, che avevano lasciato dopo i fatti di Ungheria del 1956, ma senza per questo ripudiarne la dottrina ispiratrice. I fondatori li scelsero per la loro conoscenza del mondo socialista e per le relazioni che avevano con studiosi dell'Est. 

Il Ceses organizzò numerosi incontri che videro la partecipazione sia di noti economisti neoliberali (Friedman, Von Hayek) sia di economisti dell'Est europeo. I capi di Confindustria scorgevano in
questi ultimi degli efficaci testimoni dei fallimenti del comunismo, poiché le loro richieste di riforme, che spesso erano riforme di mercato, fornivano la convalida della superiorità dell'economia capitalista di mercato. Furono stupiti di scoprire in primo luogo che gli studiosi provenienti da Paesi allora comunisti come Bulgaria, Cecoslovacchia, Jugoslavia, PoloniaRomania cercavano soprattutto di convincere i colleghi, più che degli errori economici del socialismo reale, dell'esistenza di una “terza via” tra le scienze economiche liberali e quelle marxiste. E in secondo luogo erano delusi dal vedere che gli accademici occidentali prendevano sul serio le loro teorie sulla pianificazione (13).

Quale reazione, la Confindustria e le fondazioni americane di destra smisero già nel 1970 di finanziare il Ceses. Pur con tali pecche (viste da destra), il Ceses produsse e diffuse in tutta Europa, a ovest come a est, le nuove conoscenze di cui gli intellettuali di destra avevano bisogno al fine di riorientare e realizzare i loro progetti egemonici. Su un punto economisti dell' Ovest ed economisti dell’Est concordavano: per funzionare, l'economia moderna doveva essere costruita come una gigantesca macchina calcolatrice. L’economia pianificata dal centro si era dimostrata inefficiente come calcolatrice: lo sostenevano anche gli economisti sovietici. 

Tuttavia se la capacità di calcolo fosse stata capillarmente estesa a tutta l'economia, ovvero a tutti gli operatori di essa, dal consumatore alle imprese e viceversa, essa si sarebbe configurata come una calcolatrice distribuita di insuperabile efficienza e dalle prestazioni infallibili. Si trattava, in sostanza, di sostituire un modello di calcolatrice, rivelatosi imperfetto, con un nuovo modello di superiori prestazioni: il mercato del capitale libero da ogni interferenza. In quelle idee, alcuni hanno visto la realizzazione nell’età del postfordismo di un nuovo “comunismo del capitale”, al quale aveva aperto la via la dissoluzione dello Stato (14)

Una simile visione coglie bene il senso immane di quanto è accaduto. Dinanzi alla potenza della finanza che la dottrina neoliberale ha aiutato a liberare da ogni catena, lo Stato, come portatore di un'idea di società che determina in modo libero e consapevole in quale direzione vuole procedere, si è virtualmente dissolto. E mai la concezione di un'economia senza regole, o meglio dotata unicamente di regole che le assicurano la licenza di decidere da sola i destini della popolazione del mondo, per cui tutti sono politicamente impotenti tranne una ristrettissima élite al vertice, è stata impersonata meglio di quanto non stia facendo l’attuale sistema finanziario.





 Alla fine della strada percorsa dal neoliberalismo, l'esito non poteva essere diverso: una generazione intera di quadri e dirigenti delle sinistre europee (nell'accezione ristretta indicata sopra), di intellettuali loro vicini, e di elettori, che ha profondamente interiorizzato tale concezione.





*** dipinti di Balthus

NOTE

1) I. Brassett e C. Clarke, Performing the Sub-prirne Crisis. Trauma, Fear, and Sharne as    Governamentalities of the Financial Subject, Garnet Wp n. 77, University of Warwick, Warwick     2010, p. 13.
2) Ibid., p. 27.
3) Ihid., p. 22.
4)Vedi N. J. Kiersey, Everyday Neoliberalism and the Subjectivity of Crisis. Post-Political   Control in an Era of Financial Turrnoil, in «Journal of Critical Globalisation Studies», III   (2011), n. 4, specialmente pp. 26 sgg.
5) Brassett e N. Vaughan-Williams, Crisis is Governance. Sub-prime, the Traurnatic Event, and Bare Life, in «Global Society», XXVI (gennaio 2012), n. 1, p. 42.
6) Espressione coniata da Brassett e Vaughan-Williams, ibid., p. 29.
7) Su questa linea cfr. M. Lazzarato, La fabrique de l'homme endetté, Editions Amsterdam Paris 2011.
8) S. Lee Mudge, What is Neo-liberalism?, in «Socio-Economic Review», VI (2008), n. 4, pp. 721-22.
9) L. Gallino, Società industriale, in Dizionario di Sociologia cit., pp. 609 sgg.
10) K. Galbraith, Il nuovo Stato industriale [1967], Einaudi, Torino 1968, p. 95.
11) J. Bockman, Markets in the Name oƒ Socialism. The Left-Wing Origins of Neo-liberalism,     University Press, Stanford 201 1, pp. 7 sgg. Il passo citato è a p. 9.
12) Id., The Origins of Neoliberalism between Soviet Socialism and Westem Capitalism. «A Galaxy without Borders», in «Theory and Society», XXXIV (2007), n.36,pp.345-71.
13) Ibid., p. 358.
14) Ibid., p. 365.


lunedì 11 gennaio 2016

Rosa Luxemburg. La misura delle cose

di Riccardo Bellofiore*


 Rosa Luxemburg


Sono passati ormai quasi cent’anni da quando, nel gennaio del 1919, Rosa Luxemburg venne assassinata. L’immagine che di lei hanno avuto ed hanno i suoi avversari, di ieri e di oggi, è semplice abbastanza da poter essere sintetizzata in un’espressione efficace come “Rosa la sanguinaria”. Ma anche le immagini che di lei hanno dominato e dominano tra chi dovrebbe averne più a cuore la memoria – penso ai marxisti di questo secolo, e a un certo femminismo – sono a volte talmente semplificate da risultare ancora meno accettabili.

Si prenda, per esempio, un articolo di Margarethe von Trotta, regista di un film su Rosa Luxemburg. La regista tedesca sintetizzava l’eredità della rivoluzionaria polacca nell’amore, nell’incapacità di odiare, nel rifiuto della violenza. Non si potrebbe immaginare certo nulla di più lontano da “Rosa la sanguinaria”. Già nel film, peraltro, la Luxemburg vi appare come una pacifista, amante della natura, che patisce la divisione tra politica e sentimenti, precocemente oltre il femminismo nella convinzione di una maggiore positività delle relazioni femminili. Tutti tratti, si badi, che hanno un riscontro in momenti ed aspetti di questa donna cui è capitato di essere rivoluzionaria. Ma se si assolutizzano questi lati mettendo tra parentesi la sua vita spesa nel lavoro teorico marxista, tra analisi dell’accumulazione e agire politico, la sua lucida coscienza della amara spietatezza delle leggi della storia e della lotta contro di esse, si finisce – magari contro le intenzioni – con il riproporre una divisione delle ragioni dalle passioni. 




Quello che nel film Rosa L. era utile e provocatorio, insomma, diviene nella formula troppo ellittica “l’amore era la sua guida” un appello generico ai sentimenti, ed infine una non innocente distorsione di questa figura, perché riproduce proprio quella scissione tra pensiero (un pensiero rivoluzionario, con quanto di “sporco” e irrisolto l’aggettivo comporta) e sentire (di un sentire caratterizzato da affezioni radicali e intransigenti, come era nella natura della Luxemburg) che si voleva combattere.

Della persona che ha scritto in uno dei suoi ultimi articoli su Rote Fahne, nel dicembre 1918, “Un mondo deve essere distrutto, ma ogni lacrima che scorra sul volto, per quanto asciugata, è un atto d’accusa” non si può, non si deve, perdere la tensione tra momento della lotta e momento della compassione: non lo si può, non lo si deve perdere, perché è appunto nel legame tra “forza” della trasformazione sociale e “debolezza” che si riconosce in sé e cui si vuole dare spazio nel mondo che risiede quanto di più inquietante ed innovativo questa rivoluzionaria può dire a noi ancora oggi.

Le cose stanno, ovviamente, ancora peggio se si va a guardare il modo con cui la tradizione marxista ha trattato la Luxemburg. Qui siamo su un terreno familiare. I suoi lati “femminili” sono relegati a contorno della sua riflessione marxista, a segno inconfondibile della sua umanità particolare; della sua analisi economica e della sua teoria dell’organizzazione ci si disfa rapidamente, ritenendo la prima piena di contraddizioni logiche e la seconda velleitaria e movimentista. Rivoluzionaria generosa, Rosa Luxemburg diviene proprio per questo meno lucida e destinata ad una sconfitta
che segna la sua inattualità. 

È questa, in fondo, la rappresentazione di Rosa Luxemburg che è tornata ad essere dominante, per un breve periodo, a cavallo tra gli anni sessanta e settanta, quando con la ripresa un po’ dovunque di lotte radicali anticapitalistiche si è riproposta la questione della crisi, e di conseguenza della politica rivoluzionaria. Intrappolata nella opposizione a Lenin, la Luxemburg è stata di nuovo ripudiata o accettata come determinista e spontaneista.



Un crollismo determinista? Le critiche

Può valere la pena riprendere un attimo in mano i vecchi testi polverosi, andare a rivedere ciò che ha detto la Luxemburg, e cosa è stato detto contro di lei. Credo, infatti, che possa emergerne un diverso modo di vedere le cose, una diversa immagine di una marxista i cui errori e le cui sconfitte sono molto più fertili di quanto ci dicano le vecchie e nuove interpretazioni.

Partiamo proprio dall’accusa di determinismo rivolto alla sua analisi economica. La Luxemburg, si dice, costruisce nella sua Accumulazione del capitale del 1913 una teoria del crollo che ripete i classici errori del sottoconsumismo. Il suo ragionamento sarebbe il seguente. Nel capitalismo, la produzione è produzione per il denaro, per un profitto monetario sempre crescente. Ma da dove viene il denaro che realizza il sovrappiù sempre maggiore che viene prodotto e riprodotto grazie alle ricorrenti innovazioni tecniche, e che non può essere per definizione acquistato dai lavoratori il cui consumo può “realizzare” solo una parte del prodotto? Questo plus-denaro non può che venire dall’esterno del modo  di produzione capitalistico, che fornisce una domanda aggiuntiva, costituita dalle esportazioni dell’area “avanzata” verso l’area “arretrata”.

Ma la lotta per la spartizione delle zone pre-capitalistiche e la necessità di integrarle nella circolazione monetaria conducono ad una loro inclusione nel mondo capitalistico: una volta che non esistano più possibili mercati di sbocco “esterni”, ed il capitalismo abbia raggiunto su scala mondiale la sua “purezza”, si verificherà il “crollo”.

Anche la lettura tradizionale della teoria dell’organizzazione luxemburghiana può essere sintetizzata in poco spazio. Le tendenze automatiche al crollo rendono irrilevante la costituzione di un partito separato dalle masse, che finirebbe con il degenerare in una dittatura dell’organizzazione sui movimenti reali. La crisi economica tenderebbe a generalizzare il conflitto politico “spontaneo”, di cui garantirebbero uno sbocco “rivoluzionario”.




La critica a queste posizioni si è rivelata abbastanza facile. Sul terreno dell’analisi economica, molti – basti qui citare per tutti Lenin, Bukharin e Sweezy – hanno rilevato che Rosa Luxemburg confonderebbe il problema “da dove viene la domanda che realizza il sovrappiù” con quella “da dove viene il denaro che realizza monetariamente il profitto”. La seconda sarebbe una questione tecnica, facilmente risolvibile (basta, per esempio immaginare che aumenti la velocità di circolazione, o che aumenti la quantità di oro che affluisce all’area capitalistica). Per quanto riguarda la prima questione, la Luxemburg dimenticherebbe, come tutti i sottoconsumisti, che la domanda interna all’area capitalistica non è costituita solo dai consumi operai ma anche dagli investimenti dei capitalisti: una caduta dei consumi dei lavoratori può benissimo essere compensata da un aumento nell’acquisto di beni strumentali; certo così si verrebbe a configurare, al limite, una produzione di macchine a mezzo di macchine; ma il capitalismo è appunto un sistema in cui la produzione non ha come proprio fine il consumo ma la ricchezza astratta, è una produzione per la produzione. Non vi è, pe Rosa Luxemburgrciò, nessuna tendenza automatica al crollo, che possa indurre spontaneamente la coscienza di classe nelle masse: la crisi non può che essere politica, e deve essere l’esito dell’azione di un partito di avanguardie esterne.

Le cose stanno in modo molto diverso. Rosa Luxemburg è stata certo una crollista, ma la sua argomentazione era diversa in punti essenziali da quella ricordata; come dirò, i problemi che lei ha affrontato sono ancora oggi i problemi cruciali dell’economia politica critica, mentre le facili certezze dei suoi critici si sono rivelate molto più congeniali all’impostazione ortodossa, “borghese”, della scienza economica. Inoltre, lungi dall’essere una spontaneista, Rosa Luxemburg ha sempre ritenuto che l’organizzazione fosse necessaria ma trovasse la sua legittimazione nel movimento reale, che la politica come attività separata dal sociale dovesse combattere contro questa separazione stessa, se suo fine deve essere una società democratica di autogestione del lavoro e di uscita dal primato dell’economico. Tutt’altro che determinista, il comunismo è stato per lei non una necessità ma una possibilità, di cui era vano ricercare la “garanzia” in una filosofia della storia o in una ontologia.

In quello che segue, proverò a suggerire come una interpretazione di questo tipo possa essere sostenuta.





Che cos’è l’economia politica? Valore e salario relativo

Un’opera fondamentale per capire veramente Rosa Luxemburg, e pure raramente letta, è l’Introduzione all’economia politica. Pubblicata postuma, raccoglie i capitoli rimastici di un libro che prendeva spunto dall’attività di insegnamento nella scuola di partito. Il volume era stato iniziato in carcere, probabilmente nel 1912, ed era stato rivisto successivamente dall’autrice nel 1916, ma mai da lei pubblicato; Paul Levi ne editerà una versione filologicamente discutibile nel 1925. Il libro è importante per tre ragioni: l’interpretazione della teoria del valore, la teoria della caduta tendenziale del salario relativo, la definizione del senso preciso da attribuire all’espressione 
“critica dell’economia politica”.

Per quanto riguarda la teoria del valore, la Luxemburg è stata una anticipatrice della posizione, poi espressa con particolare forza e rigore dall’economista russo Rubin, secondo cui la teoria del valore di Marx non rappresenta tanto una teoria dei prezzi relativi di equilibrio che li ancora alla determinazione “oggettiva” della spesa fisiologica di lavoro umano nella produzione, quanto piuttosto una teoria del modo peculiare e contraddittorio con cui si realizza la natura sociale del lavoro in una economia essenzialmente monetaria come quella capitalistica.

Scoprire che nel valore di scambio di ogni merce, nel denaro stesso, c’è semplicemente del lavoro umano e che il valore di ogni merce è tanto più grande quanto più la sua produzione ha richiesto lavoro e viceversa, non è che riconoscere metà della verità. L’altra metà consiste nello spiegare come, perché il lavoro prende la forma strana del valore di scambio 
e la forma misteriosa del denaro.

In una società di mercato generalizzato, quale è il capitalismo, “lo scambio”, sostiene la Luxemburg, “è il solo mezzo per unire individui atomizzati e la loro attività in una economia sociale coerente”: lo scambio è cioè il nesso sociale indiretto di una società asociale, fondata sulla separazione tra i produttori.

Il lavoro concreto, individuale, prestato all’interno dei singoli capitali, è un lavoro immediatamente privato, comandato dai capitalisti nell’attesa che esso si riveli poi effettivamente sul mercato, ex post, un lavoro sociale indifferenziato. Non è strano che in una società siffatta “l’economia produca risultati inattesi ed enigmatici per gli interessati stessi”, diventi per loro “un fenomeno strano, alienato, indipendente, di cui occorre ricercare le leggi come si studiano i fenomeni della natura esterna e si ricercano le leggi che reggono la vita del regno vegetale e del regno animale, i cambiamenti della scorza terrestre ed i movimenti celesti”. Con il capitalismo nasce, insomma, l’economia politica come disciplina autonoma, perché l’economico si separa dagli altri momenti della connessione sociale, e trova in sé stesso la propria finalità e la propria giustificazione: “la conoscenza scientifica deve scoprire a cose fatte, il senso e la regola dell’economia sociale che nessun piano cosciente le ha dettato prima”.

Non è difficile, oggi, scorgere dietro questo discorso della Luxemburg, sia pure non pienamente e soddisfacentemente sviluppato, il ruolo centrale che ha la categoria del lavoro astratto: il lavoro sociale è nel capitalismo non il lavoro utile, naturale, ma il lavoro che deve divenire sociale astraendo dalle determinazioni concrete della sua prestazione lavorativa. Che il lavoro astratto sia un’astrazione reale specifica del capitalismo e non una generalizzazione mentale del ricercatore, la cui altra faccia altro non è che il denaro stesso come prodotto specifico del capitale, è già anticipato chiaramente dalla Luxemburg in Riforma sociale e rivoluzione: l’astrazione marxiana non è un’invenzione, ma una scoperta, essa esiste non nella testa di Marx ma nell’economia mercantile, conduce un’esistenza non immaginaria, ma reale e sociale, un’esistenza così reale da venire suddivisa e battuta, pesata e coniata. Il lavoro astratto umano scoperto da Marx non è altro cioè nella sua forma sviluppata che – il denaro.



Già nella Luxemburg è possibile vedere bene anche il legame stretto che questa tematica ha con la teoria dell’alienazione e del feticismo, e con la tesi che il primato dell’economico ha una nascita e, possibilmente, una morte. Ma su questo tornerò: basti per adesso rilevare come questa problematica è estranea tanto alle riduzioni economicistiche della teoria del valore a teoria del primato della produzione ridotta a sfera tecnica, come alle posizioni che vogliono ridurre la teoria marxiana a teoria del conflitto distributivo tra le classi sociali. Ciò che qui si sottolinea è che il valore si crea – meglio: si attualizza – all’incrocio tra produzione e circolazione, che le merci sono l’esito di processi di valorizzazione svolti separatamente ed in concorrenza reciproca, e che la lotta al capitalismo è lotta alla forma di merce che ha separato individuo e società. Decisamente minoritaria tanto nel periodo della Seconda Internazionale quanto della Terza Internazionale, questa posizione sarà ripresa negli ultimi vent’anni dalla ricerca marxista più avvertita.

Passiamo al secondo punto. La generalizzazione della forma di merce comporta la riduzione a merce della stessa forza-lavoro. La peculiarità di quest’ultima consiste nel fatto che il valore d’uso di questa merce è il lavoro stesso, e non è separabile dal suo venditore. Ciò ha due conseguenze. In primo luogo, data la durata della giornata lavorativa, il capitalista ottiene un incremento della quota del pluslavoro, e quindi del plusvalore, nella misura in cui è in grado mediante tecniche di produzione più avanzate di ridurre il valore di scambio della forza-lavoro, che ha il suo corrispettivo nel salario reale. In secondo luogo, però, l’estrazione di questo pluslavoro dipende dalla capacità di imporre l’effettiva erogazione del lavoro; dipende perciò da un conflitto tra le classi nel processo di produzione, conflitto che ha la sua radice profonda nel controllo che l’operaio, singolo o collettivo, è in grado in certe circostanze di sviluppare sul proprio lavoro vivo, che costituisce la sostanza della valorizzazione. Le considerazioni che la Luxemburg svolge sul salario nell’Introduzione rimandano appunto a questa dialettica tra progresso tecnico endogeno al capitalismo – la rivoluzione incessante dei modi di produrre allo scopo di valorizzare il capitale – e la crisi sociale del modo di produzione capitalistico.

Rosa Luxemburg formula a questo proposito quella che definisce una “legge” del modo di produzione fondato sul carattere di merce della forza-lavoro, e cioè la tesi di una caduta tendenziale del “salario relativo”. La Luxemburg coglie lucidamente la differenza radicale che la forma salario determina rispetto alle condizioni del lavoro precapitalistiche:

Nel sistema salariale non esistono determinazioni legali o di diritto consuetudinario o anche solo forzose, arbitrarie della parte spettante all’operaio sul proprio prodotto. Questa parte viene determinata dal grado raggiunto dalla produttività del lavoro, dallo stato della tecnica; non una qualunque volontà arbitraria degli sfruttatori ma il progresso della tecnica è la causa dell’incessante e implacabile compressione 
della parte dell’operaio.

D’altro canto, prosegue la Luxemburg

il costante e incessante progresso della tecnica rappresenta per il capitalismo una necessità, una condizione vitale. La concorrenza tra i singoli imprenditori costringe ognuno di loro a produrre il più a buon mercato possibile, cioè con il maggior risparmio possibile di lavoro umano.

La conclusione è che

ogni progresso nella produttività del lavoro si estrinseca nel restringimento della quantità di lavoro necessaria al mantenimento del lavoratore. Vale a dire: la produzione capitalistica non può fare alcun passo innanzi senza limitare la partecipazione dei lavoratori al prodotto sociale.

La tesi della Luxemburg è, in sintesi, che l’incremento della forza produttiva del lavoro, cui contribuiscono le diverse imprese nella loro competizione alla caccia di extra-profitti, conduce ad una riduzione del lavoro necessario alla produzione dei beni-salario. Ne discendono un corollario economico ed una tesi politica.

Il corollario economico è che, contro qualsiasi teoria che imputerebbe a Marx la tesi di un impoverimento crescente della classe operaia, le innovazioni possono dar luogo contemporaneamente ad un aumento del plusvalore e ad un maggior benessere dei lavoratori (sia nel senso di salari reali più elevati che nel senso di riduzioni dell’orario di lavoro): è possibile cioè produrre più beni per i lavoratori in meno tempo, nonostante una divisione della giornata lavorativa sociale più favorevole
alla classe capitalistica.


La conseguenza politica è che – contrariamente alla versione determinista della lotta di classe che di norma viene attribuita alla Luxemburg – si riconosce uno spazio per una collusione riformista tra capitale e lavoro all’interno del capitalismo “avanzato”. La possibile convergenza di interessi tra le due classi vale, beninteso, solo finché si rimane sul terreno del valore d’uso, della ricerca di un maggior benessere materiale; le cose non stanno più così, e necessariamente, sul terreno del valore, della spartizione antagonistica della giornata lavorativa, della lotta tra capitale e lavoro sull’uso della forza-lavoro. Ma impedire, su quel terreno, che è il cuore della valorizzazione, la caduta del “salario relativo” equivale a mettere in crisi – una crisi politica perché sociale – il modo di produzione capitalistico.

La lotta contro il ribasso del salario relativo è la lotta contro il carattere di merce della forza- lavoro, contro la produzione capitalistica in quanto tale. La lotta contro la caduta del salario relativo non è più una lotta sul terreno dell’economia capitalistica ma un assalto rivoluzionario contro questa economia, 
è il movimento socialista del proletariato.

È adesso chiaro in che senso l’Introduzione presenta un modo di fare economia politica critica, cioè di legare l’analisi dei meccanismi economici ai rapporti sociali che li producono e inceppano, che è innovativo per il marxismo di allora, ma forse anche per quello di oggi. Ed è anche chiaro perché si tratta di un modo originale, allora come oggi, di intendere la teoria marxiana come “critica dell’economia politica”. Come si è detto, l’economia come scienza autonoma nasce solo con l’autonomizzarsi della sfera dell’economia, che si separa e si erge come potenza autonoma ed estranea rispetto ai lavoratori che ne costituiscono il centro. Lottare contro il carattere di merce della forza-lavoro significa allora riacquistare il controllo e la trasparenza del processo sociale, combattere e negare praticamente la separazione ed il primato dell’economia, delle cose sull’essere umano. Scrive la Luxemburg:
“Poiché l’economia è una scienza delle leggi particolari del modo di produzione capitalista, la sua esistenza e la sua funzione dipendono da questo modo di produzione e perdono ogni base quando questo cessa di esistere”.
E ancora:
 “Il compito della ricerca scientifica è quello di scoprire la mancanza di coscienza di cui soffre l’economia della società, e qui tocchiamo direttamente
la radice dell’economia politica”.
Di conseguenza “la fine dell’economia politica come scienza è una azione storica”, è il frutto di un intervento politico che sradichi le basi oggettive – materiali, o sociali, che dir si voglia – dell’opacità del modo di produzione capitalistico
e lo scandalo dello sfruttamento. 

Al di là del capitale, insomma, i fenomeni economici e la riflessione su di essi – che, come è ovvio, non scompariranno – dismettono la propria separatezza ed autonomia, per divenire subordinati ad altre forme dell’agire e ad altri discorsi.




La teoria della crisi

L’Introduzione rivela che Rosa Luxemburg vede nella teoria del valore non tanto una teoria dei prezzi di equilibrio – come faranno tanto il marxismo tradizionale quanto il neoricardismo – quanto piuttosto una teoria delle leggi di movimento del modo di produzione capitalistico. Dal valore come nesso sociale particolare la Luxemburg deriva, infatti, sia le tendenze dinamiche del capitale (legge della caduta del salario relativo) che la centralità dei fenomeni monetari. Se la visione della teoria del valore come teoria della socializzazione peculiare del capitalismo verrà ripresa, come ho detto, da Rubin, la visione della teoria del valore come analisi dello sviluppo ineguale sarà ulteriormente arricchita da Henryk Grossmann, e la visione monetaria del valore-lavoro è stata recentemente oggetto di attenzione (soprattutto da parte della teoria del circuito monetario di Graziani e Parguez
e del Financial Keynesianism di Minsky).

Queste tesi, come cercherò di sostenere, mostrano anche con chiarezza che le critiche di determinismo e di spontaneismo 
rivolte alla Luxemburg non reggono.

Torniamo alla sua teoria della crisi ed alla sua teoria dell’organizzazione. Per quanto riguarda la prima, le argomentazioni precedenti chiariscono quanto è peraltro già evidente ad una lettura attenta dell’Accumulazione del capitale, e cioè che la Luxemburg non è una sottoconsumista. La sua tesi è che proprio l’incessante attività di innovazione, che si traduce in investimenti massicci ma non regolati, determina nel corso dello sviluppo le ragioni della propria interruzione. La tesi può essere messa in termini abbastanza semplici. La crescita degli investimenti si accompagna alla crescita di nuove imprese e di nuovi rami di produzione, ed al cambiamento delle vecchie imprese e dei vecchi rami di produzione; questo comporta una modificazione delle condizioni di equilibrio degli scambi intersettoriali, modificazione che in una economia non pianificata rende sempre più probabile l’emergere di una crisi da sproporzioni, con eccessi di domanda in alcuni settori ed eccessi di offerta in altri settori. L’eccesso della produzione sulla domanda solvibile determina caduta dei prezzi, e si avranno perciò perdite e fallimenti, che a loro volta comporteranno licenziamenti; cadono quindi sia la domanda di beni strumentali da parte delle imprese fallite sia la domanda di beni salario da parte dei disoccupati. Quando questo fenomeno investe settori importanti dell’economia, la flessione della domanda di investimenti e di consumo trasmette l’eccesso di offerta ad altri settori, in un processo a catena, che ha come suo esito una sovrapproduzione generale (una linea di ragionamento non dissimile la si ritrova espressa 
in alcune pagine dei Grundrisse).

Cade dunque la tesi che l’analisi della crisi luxemburghiana non presti una sufficiente attenzione agli investimenti come componente della domanda. L’“errore” che sicuramente commette la Luxemburg è semmai quello di trasformare una tendenza sistematica alla crisi – dovuta all’ impossibilità di immaginare una crescita senza limiti della quota degli investimenti – in crollo necessario: “non esistono crisi permanenti”
scrive Marx.

Anche l’altra critica rivolta alla Luxemburg, secondo cui la questione "da dove viene la moneta che realizza il plusvalore?" sarebbe mal posta, è una critica che si ritorce in larga misura contro i suoi propositori (in questo nostro scritto non è molto rilevante la cruciale distinzione marxiana tra denaro e moneta, e utilizzeremo dunque i due termini come sinonimi). In effetti, abbiamo visto come per la Luxemburg la produzione capitalistica, come produzione di valore, non sia altro che produzione di denaro. Il costante andare e ritornare, nell’Accumulazione del capitale, alla questione della moneta è un indice del fatto che la Luxemburg aveva colto bene la natura monetaria del processo capitalistico. Il suo ragionamento, insomma, si svolge sempre in termini di un modello di circuito monetario, dove la produzione deve essere finanziata dal capitale monetario, e deve dare luogo ad un accrescimento del valore.




Rosa Luxemburg si muove, anche su questo terreno, in modo iniziale e malcerto: coglie però l’importanza di due punti che sfuggono interamente ai suoi critici. Mentre questi ultimi sono prigionieri di un’immagine del processo economico che non lascia spazio alla moneta se non come “velo” inessenziale dei fenomeni reali, di un’immagine quindi che equipara l’economia capitalistica ad un’economia di baratto, la Luxemburg si chiede costantemente come entra la moneta nel sistema economico, e come essa si incrementi per dar luogo ad un plus-denaro. Il fatto che le sue risposte siano difettose – per lei la moneta è l’esito di un processo di produzione in tutto analogo agli altri processi manifatturieri, e la maggior quantità di moneta può derivare solo dalle esportazioni – non toglie che essa sia tra i pochi autori che riprendono questa problematica dopo Marx.

Va inoltre rilevato che la successiva ricerca ha sviluppato i suggerimenti della Luxemburg mostrandone la fondatezza. Michail Kalecki, che proprio partendo dall’impostazione luxemburghiana è giunto a risultati che echeggiano quelli della contemporanea rivoluzione keynesiana, ha mostrato come un saldo positivo delle esportazioni sulle importazioni è in grado di consentire un incremento della domanda effettiva ed una parziale o totale realizzazione monetaria del plusvalore: la Luxemburg avrebbe sbagliato quindi nel vedere nell’ intero ammontare delle esportazioni un’aggiunta alla domanda ed una immissione di moneta “dall’esterno”, trascurando il deflusso di moneta dovuto alle importazioni, ma avrebbe intuito la relazione corretta che si instaura tra esportazioni nette e circuito monetario. Kalecki stesso ha inoltre mostrato come un risultato analogo possa essere ottenuto da un eccesso delle spese pubbliche sulle entrate finanziato con nuova moneta.

I limiti indubbi dell’analisi economica della Luxemburg non ci hanno impedito di rilevare l’originalità della sua ripresa della teoria del valore come teoria dello sfruttamento in una economia monetaria caratterizzata dalla concorrenza dinamica tra le imprese, e la sua anticipazione di temi oggi sviluppati dalla teoria del circuito monetario. Quelli che erano stati bollati come “errori” tanto da Kautsky come da Lenin, tanto da Bauer come da Bukharin, si sono rivelati i semi della ripresa della critica dell’economia politica negli anni più recenti.



Lotte e organizzazione: gli scritti politici

La riconsiderazione della teoria economica della Luxemburg svolta nei paragrafi precedenti ha rivelato l’infondatezza dell’accusa di spontaneismo indirizzata alla Luxemburg, che sarebbe secondo i più nient’altro che l’altra faccia del suo determinismo (tesi, peraltro, almeno più dignitosa di quella, che pure è stata avanzata, secondo cui la sottovalutazione dell’organizzazione dipenderebbe dalla natura “femminile” della rivoluzionaria polacca, che l’indurrebbe a vedere nel controllo cosciente una minaccia al comportamento spontaneo…). Per quanto possa apparire paradossale, per la Luxemburg la tendenza al crollo non giustifica alcun attendismo, e nemmeno alcun atteggiamento evoluzionistico, di tranquilla fiducia 
nel “corso delle cose”, tutt’altro.

Alla stessa conclusione si può pervenire tenendo conto di altre parti della riflessione della Luxemburg. Nei suoi scritti più tardi, la rivoluzionaria polacca sviluppa una posizione del tutto peculiare, di fatto unica nel marxismo di allora, secondo la quale l’avvento del socialismo non può essere inteso come una necessità naturale, ma esclusivamente come una necessità storica: non come un esito scontato, un momento terminale della storia umana, ma come l’unica possibilità di sfuggire alla “barbarie” verso cui lo sviluppo capitalistico trascina tanto la classe lavoratrice quanto l’umanità in genere. 

Anche qui, si può certo imputare alla Luxemburg una visione eccessivamente cupa delle dinamiche sociali, ma è difficile negare che un’impostazione del genere le consente di evitare le secche in cui si arena l’evoluzionismo secondinternazionalista e terzinternazionalista. E davvero il pessimismo luxemburghiano è un limite? Basta ricordare le convulsioni degli anni che seguirono, tra la prima e la seconda guerra mondiale, il vero e proprio degrado materiale (ma anche psicologico) della civiltà e della qualità della vita negli anni del neocapitalismo, la devastazione della natura del presente e la riemergente disoccupazione di massa dei nostri giorni, per chiedersi ancora una volta se non vi sia più ragione dalla sua parte che da quella dei suoi critici.

L’accusa di spontaneismo è spesso stata rivolta alla Luxemburg a partire dalla accettazione della teoria dell’organizzazione di Lenin. Non può peraltro non colpire il fatto che, nonostante la differenza tra i due sia netta (ma soprattutto se si guarda al Che fare?, non se si guarda a Stato e rivoluzione), e nonostante le non poche critiche di Lenin alla Luxemburg, mai si ritrovi negli scritti del rivoluzionario russo la critica in questione. In realtà, Lenin ben vedeva che la Luxemburg, benché formulasse con tutta evidenza una teoria dell’organizzazione diversa dalla sua, non negava affatto il ruolo di una avanguardia, appunto, organizzata.

I termini del contrasto sono ben illuminati da un vecchio articolo di Rossana Rossanda, Classe e partito, comparso nel settembre 1969 sul Manifesto rivista. Per Lenin la lotta operaia non può andare oltre il conflitto economico, oltre la rivendicazione di una distribuzione più favorevole ai lavoratori. La lotta sociale può divenire lotta politica solo se il partito, l’autentico “soggetto” rivoluzionario, è in grado di dare “coscienza” al proletariato come “oggetto” dell’agire rivoluzionario, in sé totalmente interno ad un orizzonte capitalistico. La Rossanda cita dal Che fare? alcuni brani di Lenin particolarmente espliciti: basti qui richiamare le conclusioni secondo cui “in Russia la dottrina teorica della socialdemocrazia sorse del tutto indipendentemente dallo sviluppo spontaneo del movimento, come risultato naturale e inevitabile dello sviluppo del pensiero fra gli intellettuali socialisti nostrani”, e che “il compito della socialdemocrazia è di introdurre nel proletariato la coscienza della sua situazione e della sua missione”.





 A ragione la Rossanda ne conclude che in questa impostazione è evidente la radice idealistica. Se è vero che bisogna guardarsi da una interpretazione “meccanicistica” del pensiero di Marx, resta da vedere come si possa volersi marxisti e sostenere che la coscienza abbia altra origine che l’essere sociale – “non è la coscienza degli uomini a determinare l’essere, ma al contrario è l’essere che determina la coscienza” ; e se il passaggio fra l’essere e la coscienza nel proletariato presenta un momento di difficoltà teorica, è francamente insolubile, pena una ricaduta verticale nell’hegelismo, una derivazione della coscienza 
dalla coscienza.

La Luxemburg, prosegue Rossanda, affronta la questione dell’organizzazione “all’interno della concezione marxiana della coscienza di classe, invece che attraverso l’accettazione della tesi leniniana di un’avanguardia esterna”. Per la Luxemburg, si badi, il ruolo dell’avanguardia è comunque centrale per trasformare le contraddizioni oggettive, cioè sociali, in rottura rivoluzionaria: ma non certo per una “assenza della dimensione politica della lotta operaia in quanto tale”, quanto piuttosto per il rischio della “sua oggettiva frantumazione” e per la conseguente “necessità di una strategia unificante.

Quello che occorre aver ben chiaro, insomma, è che la relazione tra organizzazione e spontaneità è per la Luxemburg tale che il partito trova la sua legittimità non in sé stesso ma nella classe; e che la sua efficacia può crescere e verificarsi solo nella direzione di lotte di massa che erompono periodicamente ed in modo inaspettato (“anche qui – scrive la Luxemburg nei Problemi di organizzazione della socialdemocrazia russa l’inconscio precede il cosciente, la logica del processo storico obiettivo precede la logica soggettiva dei suoi protagonisti”) ma che rischiano sempre la disgregazione e l’atomizzazione 
se non vengono costantemente riunificate.

 L’azione del partito sorge storicamente dalla lotta di classe elementare. Si muove in questa contraddizione dialettica che da un lato l’esercito proletario si recluta solo nel corso stesso della lotta e dall’altro che è ancora soltanto nella lotta che ne chiarisce a se stesso gli scopi. Organizzazione, chiarificazione e lotta non sono qui momenti divisi, meccanicamente e anche temporalmente separati […], sono soltanto facce diverse 
di un medesimo processo.

In ultima analisi, la liberazione della classe operaia sarà opera della classe operaia stessa.

“In conclusione, diciamolo pure apertamente fra di noi: i passi falsi che compie un reale movimento operaio rivoluzionario sono sul piano storico incommensurabilmente più fecondi e più preziosi dell’infallibilità del miglior comitato centrale”. E nell’ultimo articolo del gennaio 1919, L’ordine regna a Berlino, pochi giorni prima della morte: “la rivoluzione è l’unica forma di guerra in cui la vittoria finale possa essere preparata solo attraverso una serie di sconfitte”.

È dunque a causa della natura sociale e non meramente politica della rivoluzine proletaria che la Luxemburg definisce lo sciopero di massa la “forma generale della lotta di classe proletaria”, ed il partito come “il movimento specifico della classe operaia”. Nell’organizzazione si deve costantemente combattere la separazione tra ceto politico e quadro militante, tra dirigenti e diretti: la direzione del partito deve perciò essere in mano ai quadri operai. Tornerò su questo punto nel prossimo paragrafo.

Il discorso sull’organizzazione della Luxemburg è, come è ovvio, inseparabile dalla composizione di classe che aveva di fronte, dai problemi che affrontava (la diversità della situazione concreta può in effetti spiegare, sia pure solo in parte, il contrasto con Lenin). Ciononostante, credo si possa anche qui notare come i limiti che essa patisce, se guardata dall’oggi, sono non la sopravalutazione ma semmai la sottovalutazione della politicità delle lotte operaie autonome nelle fasi in cui il movimento è all’offensiva, e la difficoltà di definire il rapporto tra partito e masse 
nelle fasi di sconfitta.




Limiti che senz’altro esprimono una contraddizione, che però sarebbe bene ricordare che è tutt’ora davanti a noi, e non dietro di noi. Ancora una volta, Rosa Luxemburg si rivela
 non una soluzione, ma un arsenale di problemi.

In modo del tutto condivisibile, Edoarda Masi ha scritto:

Rosa sta dalla parte delle masse perché sono oppresse, e la funzione educatrice delle élite è per lei finalizzata alla loro rivolta, alla rivoluzione – non al potere delle stesse élites per conto delle masse, vicario del potere borghese e a esso speculare. È una visione fino a oggi priva di sbocco politico, ma la sola dove la rivoluzione non sia destinata
a divorare se stessa.

E ancora:

Se la talpa della storia è la verità che, celata al presente, si rivelerà nelle mutate condizioni del futuro, è in questo nostro tempo che si rovescia in rivincita tutto quanto era parso il risvolto negativo delle idee di Rosa e della sua sorte: puntare sulle masse – quando la rivoluzione d’ottobre, la sola vittoriosa, aveva seguito altra via; optare per la pace – quando la socialdemocrazia aveva scelto la guerra, e la guerra era venuta, seguita poi ancora da un’altra ancora più tremenda e universale; trovarsi dalla parte degli sconfitti – il peggiore dei torti secondo la ragion politica. Le vittorie di allora, se pure autentiche, non ci riguardano ormai, quando tutto è mutato e trascinato via dal tempo […] Attuali e invincibili restano le idee degli sconfitti, perché rispondono ad un’esigenza insopprimibile degli esseri umani di questo secolo e ne rappresentano la nobiltà. Indipendentemente da se e fino a quando siano attuabili.

Non saprei dire meglio.




Rosa Luxemburg e il sindacato

Il rapporto di Rosa Luxemburg con il sindacato è il tema della tesi di Claudio Sabattini , presentata nel 1969-70. Il titolo della tesi (pubblicata qualche anno fa dalla Meta edizioni) era, per la precisione, Rosa Luxemburg e il problema della rivoluzione in Occidente. La tesi è scritta di fretta, per nulla curata. Sabattini era allora stato eletto da poco segretario generale della Fiom bolognese, da tre anni lavorava alla Cgil, era stato impegnato nelle lotte studentesche come dirigente della Fgci. L’urgenza non stava però solo nella vita di Sabattini: stava anche nella scelta del tema, nella domanda che lo attraversava da capo a fondo, nel corpo a corpo con una problematica che per lui bruciava 
nella pratica quotidiana.

La prima metà della tesi si concentra sul dibattito sul “revisionismo” di fine Ottocento. Dalle controversie sul “testamento di Engels”, che pareva giustificare una tattica parlamentaristica e non violenta, alla provocazione “opportunistica” di Bernstein, alla replica “ortodossa” di Kautsky e Luxemburg. Per Sabattini le interpretazioni di Kautsky e Luxemburg coincidono solo all’apparenza, senza davvero mai incontrarsi. In Riforma sociale o rivoluzione? la Luxemburg ribatte punto per punto a Bernstein con argomenti più brillanti di quelli del “super-esperto”. La tendenza al crollo per il problema del realizzo del plusvalore è solo rimandata, ed anzi aggravata, dai fenomeni nuovi cui fa appello il revisionismo. La concentrazione del capitale in imprese sempre più grandi è una tendenza di lungo termine, che si realizza in un movimento ciclico che vede costantemente il rifiorire delle piccole imprese. Allo stesso modo, l’accumulazione del capitale tendenzialmente riunifica e rafforza il proletariato, il che non esclude le ondate di destrutturazione della classe operaia.

 La Luxemburg, contrariamente a Kautsky, andava oltre: vedeva la radice di classe del revisionismo (lo prendeva insomma sul serio), e si poneva il problema di una pratica diversa del partito (con un legame organico tra lotte immediate e presa del potere politico). Si muoveva però ancora in un orizzonte che condivideva sostanzialmente la visione “positivistica”, tra il naturalistico e il meccanicistico, del revisionismo 
e di tutta la Seconda Internazionale.

La tesi inizia a muoversi su un terreno meno esplorato nella sua seconda metà, che della Luxemburg mette a tema, da un lato, il pensiero politico, dall’altro, il rapporto tra lotte sindacali e lotte rivoluzionarie. Qui l’attualità preme. La prima questione rimanda Sabattini ad una rilettura del contrasto con Lenin dopo la crisi dello stalinismo, nell’incapacità dei partiti comunisti 
di uscire davvero da quell’eredità.

 Il secondo tema interroga il rapporto tra conflitto sindacale e dimensione politica, come si dava nel ciclo di lotte che viveva allora l’Italia. Sabattini coglie limpidamente due punti. Il primo, su cui ci siamo già soffermati, è che la Luxemburg non è affatto spontaneista: la sua è semmai una teoria dell’organizzazione alternativa a quella “blanquista” di Lenin, in quanto l’avanguardia (centralizzata) non è separata dal movimento che deve unificare e cui deve dare sbocco politico, e d è sempre soggetta al controllo dal basso. Il secondo, cui pure abbiamo prestato attenzione, sta nella ripresa luxemburghiana della tesi di Marx secondo cui non è il salario ma il tasso di accumulazione la variabile indipendente. Sabattini non cade in nessuna ingenuità conflittualista, e accetta del tutto la posizione.




Ciò che fa comprensibilmente problema a Sabattini è altro, e su questo conviene approfondire. Contro Bernstein, la Luxemburg traduce quella tesi nell’idea che, se la lotta sindacale non fa altro che realizzare la legge capitalistica del valore della forza-lavoro contro l’impulso immediato del singolo capitalista, il suo ruolo è del tutto impolitico se non per il contribuire a quella “pedagogia rivoluzionaria” che rivela al proletariato i limiti del sistema. Contrariamente al giudizio che ne aveva dato Lelio Basso, qui lotta per le riforme e lotta rivoluzionaria, economia ed politica, sembrano irrimediabilmente scisse. Ma le cose cambiano presto, secondo Sabattini. La svolta è la polemica con Lenin sul partito e poi, come conseguenza della Rivoluzione Russa del 1905, lo scritto Sciopero generale, partito e sindacati. Lo sciopero di massa non è solo un mezzo, è “la forma di manifestazione della lotta proletaria nella rivoluzione”. Il rapporto tra lotta economica e lotta politica va nei due sensi: la coscienza è radicata nell’essere sociale della classe, con cui pure non si identifica. In quell’antagonismo si dà “una possibilità storica dell’autonomia, nella prassi, della classe operaia nei confronti del capitale a partire dalla fabbrica … a condizione di fare valere la sua ‘insubordinazione’ al regime capitalistico di fabbrica, puntando sulla continua autodeterminazione 
delle proprie condizioni.”

Non è chi non veda l’attualità inattuale di questo discorso. Almeno su tre punti. La rottura della tenaglia tra separatezza del partito coscienza esterna e autosufficienza immediata del movimento. La centralità della lotta del mondo del lavoro a partire dalle sue condizioni, per una ridefinizione generale del contesto sociale. Tra i due momenti, essenziale, “l’autogoverno della classe come strumento non sostituibile del processo rivoluzionario”. In questo, per Sabattini (come fu, per un breve periodo, sia pure con articolazioni diverse, per il gruppo del Manifesto), la Luxemburg ha ragione. In questo, i nostri giorni sembrano farsi lontani da quell’ispirazione. Nella stessa sinistra sociale e politico si separano, o viene negato il necessario momento riunificante di lotte frantumate. Il sostegno alle lotte del lavoro, o latita, o va a uno dei tanti momenti del conflitto. La democrazia dentro le organizzazioni politiche e sindacali, che sta nella verifica da parte dei rappresentati, non viene affermata quale condizione primaria e ineludibile nella pratica quotidiana.

Altri tempi, si dirà. Cosa può dirci, infatti, una tesi scritta nei momenti alti della lotta, ora che siamo in una epoca di sconfitta? Pure, nelle prime pagine Sabattini , in profonda sintonia con la Rosa Luxemburg che abbiamo riletto in queste pagine, ricorda che un punto importante di Marx è che “la sconfitta della lotta proletaria non è concepita come qualcosa da rinnegare, da nascondere, o che occorreva assolutamente evitare”. Non si tratta soltanto di affermare la necessità dei tentativi, ogni volta battuti, “per nuove avanzate teoriche o pratiche”, che rende per noi queste sconfitte spesso più preziose delle vittorie. Si tratta anche di comprendere l’epoca della sconfitta, e agire conseguentemente.

C’è forse qui un paradosso, che la grande crisi scoppiata nel 2007-2008 (ma secondo me, innescata già nel 2000-2001) sta aiutando a dissipare. La ‘globalizzazione’, la “finanziarizzazione”, il “postfordismo”, il “pensiero unico” (tutti termini un po’ falsi, ai miei occhi), non danno, in fondo, ragione a Bernstein contro la Luxemburg? Non siamo appieno dentro una ‘centralizzazione senza concentrazione’? La tendenza non è proprio la destrutturazione del mondo del lavoro, disomogeneo e precarizzato, in unità produttive 
sempre più frantumate?

 Pure, questo capitalismo tutto ci appare meno che capace di controllare l’instabilità e la crisi che costantemente produce al suo interno. La sua legge di movimento è l’attacco costante al salario e alle condizioni del lavoro, in una scomposizione continua della classe, per impedirle qualsiasi possibilità di autodeterminazione, di prassi autonoma. Se si ragiona così, il soggetto sociale del conflitto non è un dato, ma va costantemente ricostruito. Senza questa riunificazione, la risposta della politica da parte di una sinistra degna di questo nome, che certo è necessaria, non vedrà mai la luce. È di qui che si dovrebbe ripartire. Le ragioni della Luxemburg (e di Claudio Sabattini) mi sembrano oggi 
più vive che mai.



La misura delle cose

In conclusione, vorrei anch’io indulgere per un attimo alla tentazione di passare dalla Luxemburg rivoluzionaria 
alla Luxemburg donna.

In una lettera dal carcere del 2 maggio 1917 scrive:

Interiormente, mi sento molto più a mio agio in un piccolo tratto di giardino, come qui, o in un campo, stesa sull’erba e circondata di calabroni, che in un congresso del partito. A voi posso dire tutto ciò, voi non mi sospetterete subito di aver tradito il socialismo. Voi lo sapete, malgrado questo spero di morire al mio posto: in una battaglia di strada o in un penitenziario. Ma nel mio intimo, io appartengo più agli uccelli che ai miei “compagni”. E questo non perché solo nella natura, come tanti politici che hanno fatto interiormente bancarotta, io trovo un rifugio, un riposo. Al contrario, io trovo nella natura, come tra gli uomini, tanta crudeltà, che ne soffro molto.

Ed ancora in un’altra lettera del 3 luglio 1900 al suo compagno di allora, Leo Jogiches, leggiamo queste frasi:

Noi, tutti e due, internamente “viviamo” di continuo, cioè cambiamo, cresciamo, perciò di continuo si crea una sproporzione, uno squilibrio, una disarmonia di alcune parti dell’anima con le altre. Dunque bisogna fare una continua revisione interna, ricostituire l’ordine e l’armonia. C’è sempre qualche cosa da fare con se stessi, ma per non perdere mai la misura delle cose, che consiste a mio avviso nell’utilità della vita esteriore, l’atto positivo, l’attività creativa, in una parola per non affondare nella consumazione e nella digestione spirituale, ci vuole il controllo di un’altra persona, che ci sia vicina, che comprenda tutto, ma che sia fuori da questo “io” che cerca l’armonia.


Leo Jogiches

Forse mi sbaglio, ma vedo un nesso tra quanto scrive questa donna innamorata e quanto pensa la marxista e la rivoluzionaria. Mi sembra che la Rosa inattuale di cui ha scritto Rossana Rossanda nella sua introduzione alla ristampa della biografia di Frölich, la Luxemburg che parla al nostro bisogno di “unità della persona nella indolenzita trama del dolore e della speranza, dell’intelligenza e dei sentimenti, dell’io e del mondo, ricomposti”, sia la stessa Luxemburg che vuole superare la separazione tra individuo e società. Che la donna che scrive “ho bisogno dopotutto di qualcuno che mi creda quando dico che solo per sbaglio sono presa nel turbine della storia del mondo, ma che in realtà sono nata per stare a custodire le oche”, è la stessa persona che preconizza nei suoi scritti scientifici la possibile fine di un mondo costruito sul primato dell’economico.

Che, insomma, questa donna che sottopone l’“io” che cerca l’armonia al rischio della relazione con l’altro da sé ed alla sfida del cambiamento sia, fuori da ogni vuota retorica, la combattente che le sue opere e la sua lotta ci hanno consegnato.


***


Note per una bibliografia

La frase, a cui alludeva il titolo di questo scritto nella sua prima pubblicazione (Una candela che brucia dalle due parti ), “l’essere umano deve essere come una candela che brucia dalle due parti” piaceva molto a Rosa Luxemburg, come ci ricorda nella sua importante biografia Paul Frölich (Rosa Luxemburg, pp. 296-318: ne esiste una traduzione della fine degli anni sessanta da La Nuova Italia, con presentazione di Marzio Vacatello, ristampata dalla Rizzoli nella Bur, con bella introduzione di Rossana Rossanda, nel gennaio 1987). Il nuovo titolo ricorda che quasi giusto cent’anni fa la Luxemburg scriveva, nel 1913, l’Accumulazione del capitale, e poi in prigione la sua risposta ai critici, intitolata appunto l’Anticritica. In questo arco di anno cade l’impegno contro la guerra, la rivoluzione tedesca e la drammatica morte per mano dei Freikorps sotto la copertura di Gustav Noske.

Le citazioni dalla Luxemburg riportate nel testo sono tratte per lo più dalle opere economiche, di cui diamo di seguito i riferimenti, e da Riforma sociale o rivoluzione?, Problemi di organizzazione della socialdemocrazia russa, Sciopero generale, partito e sindacati, dagli articoli su Rote Fahne, e dalle lettere. I suoi scritti politici sono tradotti in italiano nelle due fondamentali raccolte curate da Luciano Amodio (Scritti scelti, Einaudi, Torino, 1975) e Lelio Basso (Scritti politici, Editori Riuniti, Roma, 1970) . La prima è però certamente esaurita; la seconda, degli Editori Riuniti, non so.

Certo, la situazione non è brillante: anche se forse si intravede all’orizzonte la realizzazione, almeno in inglese, della giusta esortazione di Lenin, posta da Lelio Basso ad apoftegma della raccolta da lui curata: “la raccolta completa delle sue opere offrirà un insegnamento utilissimo per l’educazione di molte generazioni di comunisti di tutto il mondo”. L’editore londinese Verso ha infatti iniziato a pubblicare – iniziando molto opportunamente dagli scritti economici, i Complete Works of Rosa Luxemburg. Il primo volume, Economic Writings 1, a cura di Peter Hudis, usciti nel 2013 in hardback e nel 2014 in paperback, contiene per la prima volta la traduzione integrale in inglese della Introduction to Political Economy, come pure una nuova traduzione di The Industrial Development of Poland, ma anche una corposa sezione di scritti inediti (una decina, di recente ritrovamento), non poco illuminanti. Il secondo volume, Economic Writings 2, a cura di Peter Hudis e Riccardo Bellofiore (a cui si deve la introduzione), presenta una nuova traduzione della Accumulation of Capital, assieme alla Anti-Critique, per la prima volta insieme: le versioni esistenti, soprattutto la seconda, lasciavano non poco a desiderare.

In francese è in corso la pubblicazione delle Oeuvres Complètes di Rosa Luxemburg – in realtà, opere complete “per quanto sarà possibile” – da parte del col- lettivo d’edizione Smolny e dell’editore Agone. Sono comparsi, in vari anni, i volumi I (Introduction à l’economie politique, 2009), II (A l’école du socialism, 2012) e III (Le Socialisme en France, 2013); come anche La Brochure de Junius: la guerre et l’International (1907-1916), nel 2014. Perché non pensare ad una traduzione integrale delle opere e della corrispondenza, in italiano? Ci provammo Massimiliano Tomba ed io anni fa ad attivare una raccolta di fondi a questo scopo, senza molto successo.

Molte le raccolte di lettere, anch’esse però incomplete e disorganiche (Lettere a Leo Jogiches, Feltrinelli, Milano, 1973; Lettere ai Kautsky, Editori Riuniti, Roma, 1971; Lettere 1893-1919, Editori Riuniti, Roma, 1979). La più completa collezione è ancora una volta quella di Verso,The Letters of Rosa Luxemburg, a cura di Georg Adler, Peter Hudis e Annelies Laschitza, pubblicata nel 2012. Annelies Laschitza è autrice della più importante biografia contemporanea, in tedesco: Im Lebensrausch, trotz alledem. Rosa Luxemburg. Eine Biographie, Aufbau Taschenbuch, Berlin 1996.

Per quanto riguarda le pubblicazioni in italiano, l’Accumulazione del capitale. Contributo alla spiegazione economica dell’imperialismo, e Ciò che gli epigoni hanno fatto della teoria marxista. Una anticritica, vennero pubblicati in volume unico da Einaudi, con introduzione di Paul M. Sweezy (Torino, 1960, e successive riedizioni). L’ Introduzione all’economia politica è stata tradotta dalla Jaca Book (Milano, 1971), ed è fuori stampa.

Le critiche più significative alla Luxemburg sono quelle formulate da N. Bukharin, L’imperialismo e l’accumulazione del capitale (Laterza, Bari, 1972) e P. M. Sweezy, La teoria dello sviluppo capitalistico (Boringhieri, Torino, 1970). Volano molto più alto Joan Robinson e Michał Kalecki. Della prima si veda l’Introduzione alla prima traduzione inglese edita da Routledge (1951): venne tradotta in italiano nel volume curato da Lucio Colletti e Claudio Napoleoni, Il futuro del capitalismo: crollo e sviluppo, Laterza, Roma-Bari, 1970. Per la ripresa di temi luxemburghiani operata da Kalecki si vedano i saggi contenuti in Sulla dinamica dell’economia capitalistica (Einaudi, Torino 1975): in particolare “Il problema della domanda effettiva in Rosa Luxemburg e Tugan Baranovski”, del 1967, e “Le equazioni marxiane della riproduzione e l’economia moderna”, del 1968, comparso anche in Marx vivo, vol. 2, Milano, Mondadori. Su tutte queste questioni merita ancora una lettura Mariano D’Antonio, “Kalecki e il marxismo”, Studi Storici, XIX, n. 1, gennaio- marzo, pp. 17-43.

Da Kalecki discende il volume fondamentale di Tadeusz Kowalik, Rosa Luxemburg. Il pensiero economico, nella bella traduzione di Gabriele Pastrello per gli Editori Riuniti. Avevo presentato la mia tesi su Rosa Luxemburg con Claudio Napoleoni nel dicembre 1976. Il libro di Kowalik, che su molti punti seguiva una lettura simile, arrivò nelle librerie giusto nel gennaio 1977 … Anche questo è un volume reperibile solo nell’usato. Per fortuna ne esiste da poco una traduzione curata da Riccardo Bellofiore, da Jan Toporowski (a cui si deve l’ottima introduzione) e Hanna Szymborska (che ne ha approntato la traduzione) per i tipi di Palgrave Macmillan, giunta nelle librerie nel dicembre 2014. Un’interpretazione della Luxemburg, dopo la tesi, l’avevo già proposta in “Rosa Luxemburg e la teoria marxista della crisi”, in Note Economiche, n. 1, 1980. Una rassegna degli sviluppi successivi alla Luxemburg che partono dalle sue intuizioni sulla teoria del valore la si ritrova nel mio “Marx dopo Schumpeter”, Note Economiche, n. 2, 1984. Un tentativo di ricostruzione in positivo della teoria del valore lungo le medesime linee lì accennate lo si può vedere nei miei “Per una teoria monetaria del valore-lavoro”, in Valore e prezzi, a cura di Giorgio Lunghini (Utet, Torino, 1993), e “Marx rivisitato: capitale, lavoro e sfruttamento”, in Il terzo libro del Capitale di Karl Marx., Atti del Convegno di Teramo, 10-11 Novembre 1994, a cura di Marco L. Guidi su Trimestre, 1996, n. 1-2.

Come scrivo nel corpo dell’articolo, i lavori dedicati alla Luxemburg nella veste di ‘economista’ sono stati molto pochi. Ma la situazione negli ultimi anni è andata migliorando. Il primo esempio è forse il volume collettaneo da me curato, Rosa Luxemburg and the Critique of Political Economy, uscito a stampa nel 2009 per Routledge, e frutto di un convegno a Bergamo nel 2004. Contiene saggi di Meghnad Desai, Roberto Veneziani, Andrew Trigg, Paul Zarembka, Jan Toporowski, Tadeusz Kowalik, Joseph Halevi, Paul Mattick jr, He Ping, Michael R. Krätke, Andrea Panaccione, Edoarda Masi. Il libro contiene due saggi miei: un lungo saggio introduttivo (“Rosa Luxemburg on Capitalist Dynamics, Distribution and Effective Demand Crisis”) e un capitolo (“The Monetary Circuit of Capital in the Anti-Critique”).

Con Toporowski e Ewa Karwoski ho anche più recentemente curato due volumi intitolati al lascito intellettuale di Tadeusz Kowalik, ancora per la Routlegde nel 2013: The Legacy of Rosa Luxemburg, Oskar Lange and Michał Kalecki; e Economic Crisis and Political Economy. I contributi dedicati alla Luxemburg, concentrati nel primo volume, sono anche qui numerosi e di valore, di: G.C. Harcourt e Peter Kreisler, Noemi Levy-Orlik, Gabriele Pastrello, John Bellamy Foster, Roberto Lampa, oltre ancora Paul Zarembka, e Andrew Trigg. Sempre in questo volume è contenuto il mio “Luxemburg and Kalecki: The Actuality of Tadeusz Kowalik’s Reading of the Accumulation of Capital”. Nel secondo volume è contenuto Janusz J. Tomidajewicz, ‘The Accumulation of Capital’ of Rosa Luxemburg, and Systemic and Structural Reasons for the Present Crisis, e di nuovo un saggio di Paul Mattick jr. In italiano è di prossima uscita il mio “Accumulazione del capitale, schemi di riproduzione e crisi capitalistica: Marx tra Rosa Luxemburg e Michał Kalecki”, in Pagine Inattuali, n. 6, 2015.

L’articolo di Margarethe von Trotta che citiamo in principio di articolo è “Nuvole e rivoluzione”, l’Unità, 15 gennaio 1989. I riferimenti a Rossana Rossanda sono tratti da “Classe e partito”, uscito sul manifesto rivista (n. 4, 1969, poi ripubblicato come “Da Marx a Marx” in Classe, consigli, partito, quaderno de il manifesto , n. 2, Alfani, 1974). La citazione da Edoarda Masi è presa da “La persona Rosa, perché”, contenuto in Margarethe von Trotta, Rosa Luxemburg (Ubulibri, Milano 1986) che presenta la sceneggiatura del film della regista tedesca, e contiene anche un’importante introduzione di Rossana Rossanda, dal titolo “Rosa, comunista polacca ebrea donna”. La tesi in Filosofia a Bologna di Claudio Sabattini è stata pubblicata come Rosa Luxemburg e i problemi della rivoluzione in Occidente, con una prefazione di Gabriele Polo, da Metaedizioni.

La situazione non brillante delle traduzioni si ripete anche a proposito della bibliografia secondaria sulla Luxemburg: non tradotto è, per esempio, lo studio più importante sulla Luxemburg “politica”: Norman Geras, The Legacy of Rosa Luxemburg (New Left Books, London, 1976). D’altronde, la stessa biografia di J.P. Nettl, Rosa Luxemburg (Oxford University Press, London, 1966), che era stata tradotta da Il Saggiatore, è da tempo introvabile. Sono apparsi negli ultimi anni, in inglese, alcuni altri resoconti della vita della rivoluzionaria polacca, nessuno tradotto in italiano (e nessuno, per la verità, di eccelsa qualità). In italiano, si segnala il recente Dario Renzi-Anna Bisceglie, Rosa Luxemburg, Prospettiva edizioni, Roma, 1997.

L’apoftegma iniziale è tratto dal compte rendu di una edizione delle lettere dalla prigione di Rosa Luxemburg ad opera di Simone Weil, raccolto nel primo volume degli Écrits historiques et politiques, Gallimard, Paris, 1988. Una lettura parallela della Luxemburg e della Weil, come anche di Hannah Arendt, è ora: Andrea Nye, Philosophia: The thought of Rosa Luxemburg, Simone Weil and Hannah Arendt, Routledge, London 1994. D’altronde, la stessa Arendt è autrice di uno splendido saggio, “Rosa Luxemburg 1871-1919”, tradotto in italiano su Micromega, n. 3/89, pp. 43-60. Lo scritto era in origine una recensione alla biografia di Nettl ricordata più sopra, e fu poi raccolto in un volume curiosamente intitolato Men in Dark Times, Harcourt Brace & New World, New York. O forse non tanto curiosamente, se si ricorda questa storia: insieme a Clara Zetkin, Rosa Luxemburg si trovò a camminare troppo vicino a esercitazioni militari di tiro; dopo, a casa di Kautsky, alla presenza di molti dei dirigenti della socialdemocrazia tedesca, Bebel si provò scherzosamente a immaginare l’iscrizione tombale per le due ‘fucilate’; al che Rosa Luxemburg replicò dicendo che si sarebbe dovuto semplicemente scrivere “qui giacciono gli ultimi due uomini della socialdemocrazia tedesca”.

I corsivi nelle citazioni sono quasi sempre miei.

* Riccardo Bellofiore è professore di Economia Politica all’Università di Bergamo, dove insegna Economia Monetaria, La dimensione storica in economia, Macroeconomics, e International Monetary Economics. Fa parte del Comitato Scientifico di MEOC (Marx-Engels Opere Complete) e dell’ISMT (International Symposium on Marxian Theory). I suoi principali temi di ricerca sono la teoria marxiana del valore e della crisi, le teorie della moneta e della finanza, il capitalismo contemporaneo, il discorso sul metodo in economia.