uno dei due è l'altro

uno dei due è l'altro

giovedì 26 maggio 2016

Attilio Vecchiatto e l'eterno Badalucco.


Fernando Botero

Lo scritto che segue è stato pubblicato nel 2010, in epoca berlusconiana. Nella nostra sempiterna ingenuità ci apparve ("torna Craxi!" scrisse negli anni '90 un anonimo su un muro di Milano)  la maschera del Badalucco calzare pennellescamente sulla Jarryana (si dice così?) figura dell'allora Cavaliere. Ora che il passato arcoriano sfuma nell'indefinito e si afferma, smisuratamente, con splendida continuità cazzara, il renzismo eurista e neoliberista,  facciamo autocritica! Non scriveremo anonimamente su un muro "torna Silvio!" ma apprezzeremo ancor più la vita e le opere, come si suol dire, del "nostro" Attilio Vecchiatto.
***

Come racconta Gianni Celati nell’antologia commentata che gli ha dedicato (Sonetti del Badalucco nell’Italia odierna, Feltrinelli, 2010), l’attore veneziano Attilio Vecchiatto (1910–1993) ha vissuto un’esistenza errabonda e movimentata, in cui ha sperimentato l’esilio, i trionfi nei più grandi teatri sudamericani, il rapimento da parte dei guerriglieri colombiani, la bohéme del teatro sperimentale nel Bronx, gli allestimenti scespiriani con attori anziani e marionette ventriloque, il successo parigino tra gli intellettuali, l’invidia e l’ostilità di Dario Fo, la miseria nera degli ultimi anni italiani vissuti con la moglie Carlotta su e giù per la penisola, la prigione, la rinfrescante parentesi campana, la fine in una locanda veneziana per un colpo apoplettico.




13. Nos cui mundus est patria
 

Viaggiando fu l’albergo il mio castello
o un rifugio o un giaciglio di fortuna,
una capanna in Colombia o un bordello,
oppure in Venezuela il chiar di luna.

Mai ebbi casa né ebbi quel rovello:
niente da dire “mio” in cosa alcuna,
da un posto all’altro avendo nel cervello
l’idea che il mondo fosse la mia cuna.

Brontolava la moglie al ritornello
del nido necessario a far fortuna,
per non migrare sempre a mo’ d’uccello
e aver la casa che gli affetti aduna.

Hai ragione Carlotta, cuore attento,
ma la nostra casa sta tra il nulla e il vento.



Autore di poesie sin dagli anni ’30, quando si trovò a vivere in Argentina, Vecchiatto era già stato scoperto da Celati, che gli aveva già dedicato un testo in ricordo del suo ultimo spettacolo teatrale (Recita dell’attore Vecchiatto nel teatro di Rio Saliceto, Feltrinelli, 1996). Egli aveva continuato a scrivere anche negli ultimi anni di vita, durante i quali spesso si guadagnava da vivere declamando versi e vendendone per strada le fotocopie. Il ritrovamento del grosso quaderno di sonetti in gran parte inediti, avvenuto qualche anno fa in un cassetto dell’ultima sua provvisoria dimora in una stanza della locanda di Sandon dal Fosso in cui morì, ha consentito la pubblicazione delle ultime opere di questo poeta straordinario, lucido e sfortunato.




1. Il viaggiatore torna in patria. Scritto in un caffé di Roma, tre mesi dopo il ritorno in Italia

Torna da vecchio in patria il viaggiatore
e guarda il suo paese ritrovato,
ora inospite, triviale, deturpato,
in mano a furbi senza alcun pudore:

fogna di massa, paese d’orrore
e di vergogne da togliere il fiato,
con quei somari del televisore
che fan del più fetente il più quotato.

Con chi scambiare idee in tal squallore,
dove impera il maramaldo unto e beato?
Cosa fare in balia d’un truffatore
che aizza tutto il popolo intronato?

Che dire? È in fogne, fango e brulicame
che fa carriera il Badalucco infame.





34. Sulla dittatura del nuovo

Hanno ficcato in testa a tutti quanti
che il nuovo sempre sia cosa migliore,
e in massa vedi ovunque gli zelanti
vestire i panni dell’adoratore

d’ogni gadget ch’è nuovo e un po’ più avanti
rispetto al nuovo delle sue passate ore,
con nuove macchinette elettrizzanti
esibite come titoli d’onore.

Il Badalucco la dà da bere a tanti
che non resta in giro un onesto obiettore:
tutti si inchinano ai nuovi fabbricanti
e il nuovo diventa la religion maggiore.

Questa è la vita come target aziendale:

e qui finisce il mio sonetto, bene o male.




Si tratta di sonetti formati da versi endecasillabi con schema ABAB ABAB ABAB CC (tre quartine a rime alterne e distico finale a rima baciata), talvolta caudati, secondo una metrica non molto comune. Essi, secondo il Celati, «parlano del vivere e del morire, dell’amore e del disamore, della nostra cecità e della luce immaginativa, della vita terrestre e della vocazione teatrale che ci guida attraverso il buio della mente. Ma soprattutto parlano d’una “Italia trista”, che non sa cosa sia vergogna, e dell’ottimismo obbligatorio più bigotto, della vita come target aziendale, dell’opulenza come insolenza, dell’italicismo come stupidità di comodo, e dell’ineluttabile ansia prodotta dal “borghese comfort della malora” (parole di Vecchiatto)».




9. Consuma, consuma e andrai in paradiso

Consuma, consuma e andrai in paradiso,
con tutti gli attori e la bella gente
che qui in terra hanno messo su il sorriso
di chi ha la fama dell’uomo vincente.

Continua a consumare e fai buon viso
a fregature, debiti e al demente
obbligo di star sempre sull’avviso,
perché del nuovo non ti sfugga niente.

Fai (come Badalucco) del tuo riso
uno stampo cosmetico lucente;
poi altre operazioni e un nuovo viso,
ti faranno un manichino appariscente.
 

Ma cadrai presto, sgonfio da far pietà,
nel baratro dell’umana nullità.





Sullo sfondo aleggia la figura del Badalucco, “categoria dello spirito” secondo il Vecchiatto, personaggio capace di portare tutti gli italiani nel buio più profondo di un ebete conformismo. L’opera non a caso è introdotta da una frase di Giordano Bruno che si ripete nell’esergo di ciascuna delle sue cinque parti (“puntate”): “Umbrarum fluctu terras mergente…”, che ben descrive non solamente il sentimento dell’autore, ma la situazione attuale dell’umanità: «È l’idea di un’oscurità in cui gli uomini vivono, come un grande mare di ombre che sommergono tutti i continenti piombando le menti degli uomini in una cecità molto difficile da superare»

Alcuni hanno visto il Badalucco incarnato in un noto personaggio dell’economia e della politica, che negli ultimi lustri ha plasmato l’Italia a propria immagine e somiglianza, e che il lettore accorto saprà individuare. Ma forse è più corretto pensare che oramai il Badalucco è in ciascuno di noi e che ciascuno di noi è partecipe di un ineluttabile Badalucco universale, senza speranza di riscatto.



7. Seconda lezione di tenebre

Di tenebre si tace e chi ne parla
è dal consorzio civile isolato,
perché ogni tizio un po’ civilizzato
deve sempre mostrar con la sua ciarla

che sa dov’è la luce. E trascinato
dai discorsi degli altri (che poi a farla,
la luce, ci pensan poco) può darla
come un dato di fatto assicurato.

Dopo di che, ogni furbo che straparla,
con nuovi lumi oscuri come il fato,
succhierà soldi al tizio costernato
dal timore del buio che lo tarla.

Vecchiatto non vuol certo aver ragione,
ma rende omaggio al nostro tenebrone.





31. Ars moriendi. Scritto in un ospedale veneziano, in un momento di riflessione acuta, ma non depressiva

Dove il demone disumano impera
e travestito ormai da buon borghese
la belva finanziaria e menzognera
elegge a dio il denaro d’un paese,

di morire in pace ormai nessuno spera,
perché fino all’ultimo ha pretese
che il denaro lo salvi dalla fiera
morsa del nulla che sempre lo attese.

Ma tu Carlotta cara, amica vera,
ascolta Attilio che non può far spese
per curarsi la salute e che dispera
di sopravvivere ancora per un mese.

Sappi che lui non muore disperato,
a differenza del borghese infrollato.






nota
“Borghese infrollato” = reso frolle dagli agi. È l’infrollimento del borghese che vuole ogni comodità - ognuno per sé, a casa sua, etc.







martedì 24 maggio 2016

Riforma o rivoluzione sociale? Postcapitalismo!


Sebastiano Isaia


Masolino da Panicale

La tecnologia sta trasformando il capitalismo in qualcosa di radicalmente diverso, non solo rispetto ai suoi tumultuosi esordi e agli anni d’oro del suo consolidamento e della sua gigantesca espansione (prima globalizzazione: dalla rivoluzione industriale alla Prima guerra mondiale), ma anche rispetto al capitalismo di pochi decenni fa. La transizione dal noto all’ignoto accelera, così che si possa stimare in cinquanta anni, anno più, anno meno, il tempo che ci separa dalla sempre più probabile e necessaria estinzione del capitalismo, uscita di scena che peraltro assumerà una modalità assai diversa da quella immaginata dai comunisti del XIX e del XX secolo.


Si tratterà, infatti, di una rivoluzione tecnologica e politica assolutamente pacifica. D’altra parte, la cattiva esperienza della Russia socialista obbliga la sinistra, la sola forza politica che possa mettere sui giusti binari la transizione dal Capitalismo al Postcapitalismo, a una  profonda revisione politica dei suoi vecchi schemi, pena la sua definitiva uscita di scena a tutto vantaggio di una destra razzista e sovranista sempre più pericolosa. Un nuovo tipo di sharing economy sta dunque crescendo sotto la superficie del capitalismo avanzato, e alla fine la prassi della condivisione generalizzata di beni e servizi lo distruggerà dall’interno. Economia capitalistica di mercato ed economia postcapitalista coesisteranno per qualche decennio, ma alla fine la prima dovrà cedere il passo alla seconda, perché il cambiamento può essere certamente ostacolato e rallentato (ad esempio attraverso la creazione di monopoli: vedi Uber, Google, Facebook, Amazon, ecc.), ma non impedito indefinitamente. 



La produttività sociale generata dalle tecnologie intelligenti spinge il tempo di lavoro, il prezzo delle merci/servizi e il profitto verso un punto critico che per l’economia attuale equivale a una pugnalata inferta al cuore: lo zero economico. Il capitalismo ha superato la soglia tecnologica del non ritorno? Nessuno può dirlo. In ogni caso, la costituzione di un nuovo Potere sistemico accanto a quello vecchio è già in atto. Lungi dall’essere distrutto, secondo il vecchio canone marxista che nella Russia socialista e altrove ha fornito una pessima prova di sé, lo Stato dev’essere ripensato come catalizzatore e come motore della transizione dal Capitalismo al Postcapitalismo.

Questo è, in estrema – e perciò stesso incompleta e riduttiva – sintesi, il nucleo concettuale che pulsa al centro di Postcapitalism, un interessante – ma tutt’altro che originale (1) – saggio scritto da Paul Mason, giornalista economico inglese di simpatie laburiste e profondo conoscitore della vasta letteratura “postcapitalistica” prodotta in Italia. 

«Se negli anni Settanta Negri e la sinistra radicale italiana erano prematuri nell’affermare che la fabbrica non era più il luogo della lotta di classe e che la società stessa era diventata la fabbrica, oggi quest’affermazione è corretta»

No, non lo era allora, corretta, e non lo è tanto meno oggi. È ciò che proverò ad argomentare (dimostrare mi sembra fuori dalla mia portata) nelle pagine che seguono.


Evgeny Morozov, assai critico delle tesi postcapitalistiche di Mason (alle quali oppone il vitalismo liberista dell’economista austriaco Friedrich August von Hayek, premio Nobel nel 1974), sostiene (su Twitter) che «non possiamo pensare a una narrativa di internet che non contempli il capitalismo, come non possiamo pensare a una narrativa del capitalismo che non contempli internet».



In realtà è la stessa distinzione operata da Morozov che appare debole, evanescente, poco significativa fattivamente e concettualmente. Scrive Mason: «Il capitalismo non sarà abolito a tappe forzate. Sarà abolito creando qualcosa di più dinamico, che già esiste, quasi invisibile, all’interno del vecchio sistema, e che poi verrà alla luce rimodellando l’economia intorno a nuovi valori, nuove norme e nuovi comportamenti» (2). Mason chiama il mondo che – forse – verrà dopo il definitivo esaurimento della spinta propulsiva (e adattiva) del Capitalismo Postcapitalismo, appunto; forse per economia di pensiero, o forse perché rimanere nel vago “fa” più… postmoderni.

La fuoriuscita dell’umanità dalla disumana dimensione del Capitalismo senza attraversare l’impervio – quanto, a mio avviso, necessario – sentiero della rivoluzione sociale, ma grazie allo spontaneo “salto dialettico” dalla quantità alla qualità reso possibile dallo stesso sviluppo capitalistico: è, questa, un’utopia reazionaria (mille volte contraddetta dal reale processo sociale mondiale) che spesse volte ha fatto capolino nella storia del movimento operaio internazionale. È sufficiente menzionare il Bernsteindebatte, l’acceso dibattito che si sviluppò nel seno del socialismo europeo alla fine del XIX secolo intorno agli articoli del socialista “revisionista” Eduard Bernstein pubblicati sulla Neue Zeit dal 1896 al 1898, per farsi un’idea abbastanza precisa di ciò che intendo dire. Rosa Luxemburg accuserà Bernstein di voler trasformare «tutto il movimento operaio [in] un’inutile rattoppatura per la salvezza dell’ordine capitalistico» (3). 

 
Com’è noto, Bernstein sosteneva che i nuovi fenomeni economico-sociali sorti dopo la morte di Marx (sviluppo del sistema creditizio, sviluppo delle organizzazioni imprenditoriali, del monopolio, delle comunicazioni; miglioramento della situazione economica e politica del proletariato, ecc.) per un verso accrescevano la capacità di adattamento del Capitalismo, allontanando forse per sempre lo spettro delle crisi generali, fondamento materiale delle rivoluzioni sociali; e per altro verso, “dialetticamente”, questi stessi fenomeni rappresentavano «al tempo stesso premesse, e in parte persino prodromi della socializzazione della produzione e dello scambio» (E. Bernstein, New Zeit, 1897-98). 

La mela matura del Socialismo sarebbe caduta dall’albero da sola, oppure dopo uno scossone elettorale e qualche sciopero pacifico: nulla legittimava più il “vecchio” modello di rivoluzione sociale pensato da Marx in una precedente fase dello sviluppo capitalistico. Scriveva la Luxemburg: «Ora, se i cartelli, il credito, i sindacati, ecc. sopprimono le contraddizioni capitalistiche, e quindi salvano dalla rovina il sistema capitalistico, conservano il capitalismo, come possono rappresentare al tempo stesso “premesse e in parte addirittura prodromi del socialismo”? Evidentemente solo nel senso che essi esprimono più nettamente il carattere sociale della produzione. Ma in quanto la conservano nella sua forma capitalistica, essi al contrario rendono in pari misura vano il passaggio da questa produzione socializzata alla forma socialista» (4). In estrema – e personalissima – sintesi: senza l’urto rivoluzionario promosso dal proletariato armato di coscienza di classe e di organizzazione autonoma, nessuna mela “socialista” potrà mai cadere dall’albero capitalistico. 



La somma delle riforme sociali non genera il “salto dialettico” dalla quantità alla qualità, ma accresce piuttosto le capacità adattive del vigente Dominio sociale.

Dalla prospettiva autenticamente anticapitalista il movimento rivendicativo economico e politico dei lavoratori deve essere subordinato allo «scopo finale», il quale «non è uno stato che attende il proletariato al termine del movimento, indipendentemente da questo movimento e dal cammino che esso percorre, uno “Stato dell’avvenire” situato in qualche luogo; non è uno stato che si possa di conseguenza tranquillamente dimenticare nelle lotte quotidiane e accentuare tutt’al più nelle prediche domenicali come un momento di elevazione opposto alle preoccupazioni quotidiane. [...] Lo scopo finale è invece piuttosto quella relazione alla totalità (alla totalità della società considerata come processo), da cui soltanto ogni singolo momento della lotta trae il suo senso rivoluzionario» (5)

Qui si afferma, sulla scorta di Hegel e di Marx, «il predominio della categoria della totalità», chiamata a riempire di senso e di una concretezza non volgarmente empirica la contingenza.

Quando leggo le perle “dialettiche” degli attuali teorici del “salto dialettico” più o meno inevitabile/spontaneo (vedi gli accelerazionisti e i proudhoniani d’ogni tendenza), non posso che inchinarmi al cospetto della seguente tesi luxemburghiana: «La teoria bernsteiniana è stata il primo, ma insieme anche l’ultimo, tentativo di dare una base teorica all’opportunismo» (6). In effetti, gli epigoni inconsapevoli di Bernstein (e di Proudhon) non fanno che ripetere, attualizzandolo, l’impianto politico-dottrinario del maestro, autore della celebre formula “movimentista” che postula il primato assoluto del movimento («che è tutto») sullo scopo finale («che è nulla»). 




Il loro errore concettuale fondamentale, che li costringe a muoversi politicamente ben dentro la continuità del dominio capitalistico, consiste in una infondata lettura della natura sociale del Capitalismo, che essi allo stesso tempo esaltano (come «premesse e in parte addirittura prodromi del socialismo») e sottovalutano (come reale modo di essere del Capitalismo). Per mutuare Goethe (che nel libro citato Rosa Luxemburg usa contro Corrado Schmidt), ciò che esiste (la realtà) essi lo vedono in lontananza, e ciò che ancora non esiste (la possibilità) essi la vedono alla stregua di una realtà fattuale: di qui ciò che mi piace chiamare, con riferimento ai riformatori sociali dei nostri tempi (vedi, ad esempio, il solito Toni Negri), “ottimismo della pseudo-rivoluzione”. Per questi ottimisti incalliti la madre della “rivoluzione” è sempre incinta e sul punto di partorire un nuovo mondo rigorosamente post (e oltre) qualche cosa: postfordista, postindustrialista, postmoderno, post-post, e così via.

Mentre Bernstein puntò a suo tempo (in un momento in cui il ciclo espansivo dell’accumulazione capitalistica sembrava inarrestabile, come l’ascesa della Germania a potenza globale di prima grandezza) i riflettori sulla capacità adattativa del Capitalismo giunto nella sua fase “matura”, Mason (che muove da una congiuntura economica sfavorevole, tale da alimentare il dibattito rubricato come stagnazione secolare) parte dal presupposto opposto: «In breve, la tesi di questo libro è la seguente: il capitalismo è un sistema adattivo complesso che ha raggiunto i limiti della propria capacità di adattamento» (7). Il riformismo del primo sembra insomma radicarsi su una concezione ottimistica circa lo stato di salute del Capitalismo, mentre quello del secondo appare fondarsi su una concezione che in qualche modo ricorda il “crollismo” contro cui il “revisionista” tedesco si batté strenuamente.



Scrive Mason: «Nuove forme di proprietà, nuove forme di prestito, nuovi contratti: negli ultimi dieci anni è nata una nuova sottocultura d’impresa che i mezzi d’informazione hanno chiamato sharing economy, economia della condivisione. Si sentono dovunque termini come “beni comuni” e “produzione peer to peer”, ma pochi si sono chiesti cosa comportano questi nuovi sviluppi per il capitalismo. Penso che questi microprogetti offrano una via d’uscita, ma solo se saranno coltivati, promossi e tutelati attraverso un cambiamento radicale dell’attività dei governi. Tutto questo potrà cominciare solo con un nuovo modo di concepire la tecnologia, la proprietà e il lavoro. A quel punto, quando creeremo gli elementi del nuovo sistema, potremo dire a noi stessi e agli altri: “Questo non è più solo il mio meccanismo di sopravvivenza, il mio rifugio dal mondo neoliberista, ma un nuovo modo di vivere in via di formazione”»

Si tratta, insomma, di dare impulso a una rivoluzione politico-culturale in grado di sprigionare per intero il potenziale economico-sociale che mina le fondamenta del Capitalismo old style, e anche i governi naturalmente sono chiamati a dare il loro prezioso contributo. Come il platonico «pensiero di Dio», il Capitale cognitivo di cui parla Mason «si nutre di intelletto e di scienza pura» (Fedro).



Niente da dire, nulla da obiettare; ma perché chiamare Postcapitalismo un classico progetto di “rivoluzione capitalistica”?

Ovviamente non sto contrapponendo la posizione rivoluzionaria di Rosa Luxemburg, di Lukács o di qualche altro comunista citato in queste pagine alla posizione borghese-progressista di Mason, operazione che sarebbe ridicola sotto tutti i punti di vista; cerco piuttosto di prendere spunto dalle argomentazioni del postcapitalista inglese per sviluppare una serie di riflessioni intorno a dei nodi teorici e politici che a me appaiono meritevoli d’attenzione. Scrive Lelio Demichelis a proposito del libro di Mason: «È il trionfo del capitalismo di piattaforma, che non è qualcosa di virtuoso che permette una cooperazione libera tra soggetti anch’essi liberi, appunto mediante una piattaforma tecnologica (un mezzo), ciascuno potendo godere del lavoro condiviso con altri. Ma è un capitalismo di piattaforma perché i profitti (il fine) sono di chi possiede la piattaforma (come nel caso di Uber o di Airbnb), non di chi la usa. E la stessa sharing economy è sì condivisione ma deve prourre business per la piattaforma; o altrimenti, è meglio definibile come economia della sopravvivenza in tempi di impoverimento di massa». Più che di un Postcapitalismo dovremmo piuttosto parlare di un ultracapitalismo, non c’è dubbio.

Demichelis è pronto a riconoscere le colpe che fanno capo alla scienza sociale per ciò che riguarda la fabbricazione della mitologia intorno a un’incompresa «economia della conoscenza», al «capitalismo cognitivo di pochi anni fa»: «Economisti e soprattutto noi sociologi abbiamo (non tutte, ma) molte colpe nell’avere favorito questa rivoluzione linguistica. Che si basava e ancora si basa su un drammatico errore di valutazione delle trasformazioni avvenute e ancora in atto appunto nell’organizzazione del lavoro capitalista. Un errore. Intellettuale e di analisi» (8).



Come non condividere. Ciò su cui invece non mi trovo per nulla d’accordo con Demichelis è sulla sua predilezione per l’economia capitalistica che l’Occidente ha conosciuto nell’altrettanto mitico «Trentennio glorioso» seguito al Secondo macello imperialistico mondiale: «Il welfare pubblico post-1945 era basato anch’esso sulla condivisione (la redistribuzione della ricchezza dall’alto verso il basso della società, la creazione di uguali punti di partenza per tutti, le assicurazioni sociali come forma di partecipazione e di condivisione sociale dei rischi), oltre che sulla fraternità/solidarietà inter-generazionale. Ma tutto questo è stato progressivamente rimosso, cancellato. Come il fatto che il lavoro era un diritto. Ed è diventato una merce. Chiamando però tutto questo modernità e innovazione». Il classico piagnisteo dei nostalgici del tempo in cui il Muro di Berlino era ancora in piedi. Detto en passant, e solo per mera pignoleria dottrinaria, il lavoro (salariato) non è diventato una merce al tempo dell’odiato neoliberismo: lo è sempre stato in regime capitalistico, nell’Ovest capitalisticamente più dinamico come nell’Est dominato dal modello capitalistico di matrice Sovietica – nel senso della defunta URSS, si capisce.


note
(1) Sotto questo aspetto Lelio Demichelis non sbaglia quando scrive che «Leggere Mason fa l’effetto di un tempo che si è bloccato alle promesse della new economy degli anni ’90 del secolo scorso (che favoleggiava di fine dei fastidiosi cicli economici, prometteva laliberazione dalla fatica e un lavoro immateriale e intellettuale per tutti), alla fine del lavoro (1995) e all’era dell’accesso (2000) di Rifkin, alla wikinomics di Tapscott e Williams (2007), alpunkcapitalismo di Matt Mason (2009), passando per l’Howard Rheingold della rete che ci rende intelligenti (2012), al Rifkin (ancora) della società a costo marginale zero (2014), ovvero all’internet delle cose, all’ascesa del commons collaborativo e quindi dell’eclissi del capitalismo. Senza dimenticare Negri e Hardt del Comune (2010). Per non citare che alcuni dei componenti di questo variegato mondo di profeti, di guru del post, abili nell’immaginare il nuovo regno di Dio-tecnica in terra, ma incapaci di fare preliminarmente una doverosa e foucaultiana archeologia dei poteri e dei saperi dominanti nelle società tecno-capitaliste. Quindi, incapaci di vedere come la soluzione da loro proposta per arrivare al postcapitalismo – più tecnologia che, da sola permetterebbe condivisione e libera circolazione delle idee – sia in contraddizione con l’essere la tecnologia ormai strettamente integrata al capitalismo (sono una cosa sola), la tecnologia permettendo al capitalismo di sopravvivere alle sue contraddizioni, il capitalismo essendo la benzina che permette alle nuove tecnologie di essere ciò che sono. Paradossale è dunque immaginare che quella tecnologia che sostiene il capitalismo e che lo ha reso globale (e globale e totalitaria la sua evangelizzazione) e che si serve del capitalismo per accrescere se stessa, possa giocare contro se stessa liberando se stessa (e gli uomini) dal capitalismo che la sostiene» (MicroMega). Non condivido invece, come si evince altrove nel presente testo, la proposta politica di Demichelis: «Ci vuole ben altro, allora, per uscire dal tecno-capitalismo. Occorre soprattutto una riconsiderazione radicale (un rovesciamento) dei rapporti tra economia (che deve tornare ad essere un mezzo) e società (che deve tornare ad essere il fine)». Deve tornare? Lo sanno tutti che da quando il Capitalismo è Capitalismo «il fine» è la ricerca del profitto! Spesso la rivendicazione del primato della politica sull’economia cela, e al contempo rivela, la nostalgia per il vecchio Capitalismo (o «dirigismo» ovvero «socialismo») di Stato.
(2) P. Mason, Postcapitalismo. Una guida per il nostro futuro, p. 15, Il Saggiatore, 2016.
(3) R. Luxemburg, Riforma sociale o rivoluzione?, p. 146, Editori
Riuniti, 1967.
(4) Ibidem, p. 149.
(5) G. Lukács, Rosa Luxemburg come marxista, in Rassegna
comunista, 1921.
(6) R. Luxemburg, Riforma sociale o rivoluzione?, p. 205.
(7) P. Mason, Postcapitalismo, p. 14.
(8) L. Demichelis, Il nuovo fordismo individualizzato,
Sbilanciamoci, 14 aprile 2016.


giovedì 19 maggio 2016

Il Syd Barret Perduto (6 gennaio 1946 - 7 luglio 2006)


Fleba il fenicio, morto da quindici giorni,
Dimenticò il grido dei gabbiani, e il flutto profondo del mare
E il guadagno e la perdita.
Una corrente sottomarina
Gli spolpò le ossa in sussurri. Mentre affiorava e affondava
Traversò gli stadi della maturità e della gioventù
Entrando nei gorghi.
Gentile o giudeo
O tu che volgi la ruota e guardi nella direzione del vento
Pensa a Fleba, che un tempo è stato bello e ben fatto al pari di te.*

 



Nick Kent - "New Musical Express Year Book" - 1974





Circola una strana storia a proposito di un incidente capitato durante uno degli ultimi spettacoli di Syd Barrett con i Pink Floyd. Dopo un lungo intervallo, il gruppo aveva deciso di tornare in scena (ci sono molte controversie sul luogo in cui tutto questo sarebbe accaduto); ad ogni modo tutti tornarono in scena meno Barrett, che rimase nel camerino cercando maniacalmente di sistemare la sua folle pettinatura di quel momento. Mentre i suoi amici accordavano, Barrett, più disperato che mai, vuotò il contenuto di una boccetta di Mandrax, ruppe le pillole in piccoli pezzi e mescolò le briciole in un vasetto pieno di brillantina. Poi si versò questa massa coagulata sulla testa, afferrò la Telecaster e si diresse verso il palcoscenico. Mentre suonava nel solito modo incoerente, incostante e quasi caotico, la miscela di Mandrax e brillantina si spappolava per l'intenso calore delle luci di scena, colando giù per i suoi capelli fino a far sembrare la sua faccia una maschera deforme.

Questa storia può essere più o meno vera. Esistono molte strane storie che riguardano l'intero periodo leggendario di cui Syd Barrett è il protagonista ambiguamente onorato: alcune sono vere, altre sono il frutto di invenzioni nostalgiche. Eppure Barrett è ancora vivo e in circolazione. Ogni tanto fa la sua apparizione alla Lupus Music, la casa editrice musicale che ha sede a Londra in Berkeley Square e che, controllando i suoi diritti d'autore, lo ha mantenuto in questi ultimi anni d’inattività in condizioni finanziarie abbastanza modeste. Durante una delle sue ultime visite (probabilmente l'unico contatto reale di Barrett con il mondo esterno) Brian Morrison, il manager della Lupus, ha insistito perché Barrett scrivesse qualche nuova canzone.



Malgrado tutto, la richiesta di materiale di Syd Barrett è notevole in questo periodo e la EMI è  pronta a sbattere il ragazzo in studio, produttore al seguito, in ogni momento possibile. Barrett ha risposto che no, non aveva scritto niente ma era disposto a produrre seriamente qualcosa. La settimana scorsa si è ripresentato in ufficio. Quando gli è stato chiesto se avesse scritto qualche nuovo motivo, ha risposto nel suo abituale stato confusionale, con i capelli ricresciuti approssimativamente dopo l'ultima rasata: «No». E prontamente è scomparso di nuovo. Questa routine dura ormai da anni. D'altra parte, l'impressione è che Barrett si faccia vivo alla Lupus solo quando l'affitto è scaduto o quando vuole comprarsi una nuova chitarra (un lusso, questo, che ad un certo punto è diventato un'ossessione e di conseguenza è stato ridimensionato).

Barrett passa il resto del suo tempo stravaccato davanti ad una grande TV a colori, nelle due stanze del suo appartamento nel cuore di Chelsea, oppure camminando senza meta per le vie di Londra. Recentemente frequentava un negozio di vestiti in King's Road, dove qualcuno lo ha visto provarsi tre misure diverse dello stesso tipo di pantaloni, dicendo che gli cadevano tutti perfettamente, e poi scomparire di nuovo, senza comprare niente.



Tutta la storia di Syd Barrett è così: un'immensa tragedia costellata da tanti e tali aspetti ridicoli e comici che potresti essere facilmente tentato dall'idea di riempire un intero articolo riportando soltanto gli aneddoti folli e le storie stravaganti di demenza crepuscolare, e lasciarlo così. La conclusione, comunque, è sempre inevitabile ma va molto più lontano dell'immagine assolutamente falsa dell'artista considerato come una vittima immolata fatalmente sull'altare dell'acido e sacrificata in nome dello spirito glorioso del '67.

Syd Barrett era semplicemente un giovane compositore brillante e creativo, il cui genio è stato in un certo senso amputato, lasciato a zoppicare in un limbo solitario accompagnato solo da una creatività ormai stentata e da un tipo di schizofrenia passiva e illogica.

La saga inizia, per essere sintetici, con un gruppo che si chiamava The Abdabs. Si chiamava anche T-Set ma nessuno tra le persone con cui ho parlato ha saputo dirmi quale sia stato il primo nome del gruppo. Non è molto importante, tuttavia. II gruppo era composto da cinque persone, tre delle quali erano giovani aspiranti architetti: Richard Wright, Nick Mason e Roger Waters, un chitarrista jazz che si chiamava Bob Close e – il membro più giovane - uno studente d'arte il cui nome era Roger Keith Barrett (a Barrett, come a molti altri ragazzini, era stato affibbiato un soprannome: Syd, che in qualche modo è rimasto anche dopo il periodo della scuola).

Il gruppo, secondo l'opinione generale, era abbastanza penoso ma siccome tutti i componenti provenivano dai circoli alla moda della loro città natale, Cambridge, ottennero un certo rispetto, almeno nel loro ambiente. Secondo il loro concittadino Storm, dello studio «Hipgnosis» (il noto gruppo di design di copertine di dischi che ha sempre mantenuto un contatto stretto e solido con i Pink Floyd), questa élite alla moda era strutturata su vari livelli di relazione e il legame principale era l'età. «Era una cosa molto comune, nel 1962 seguivano tutti Jimmy Smith. II 1963 portò la droga e il rock. Syd è stato uno dei primi a seguire i Beatles e i Rolling Stones». «Syd aveva iniziato a suonare la chitarra in quel periodo, la portava alle feste o la suonava in un club che si chiamava The Mill. Lui e Dave (Gilmour) d'estate andarono nel sud della Francia e suonarono per la strada». Storm ricorda Barrett come un «ragazzo vivace ed estroverso. Fumava droga, cercava ragazze — le solite cose. In apparenza non aveva problemi. Non era ancora introverso come ho visto in seguito».



Prima che nascessero i Pink Floyd, Barrett aveva tre interessi principali: la musica, la pittura e a religione. A Cambridge, un certo numero di persone meno giovani di Barrett iniziavano a interessarsi ad un'oscura forma di misticismo orientale nota come «Sant Saji», che implicava lunghi periodi di meditazione e contemplazione della purezza e della luce interiore. Syd cercò di introdursi in questa setta ma venne respinto perché «troppo giovane» (allora aveva 19 anni). Tutto questo, secondo alcune persone che lo conoscevano, sembra lo abbia colpito molto profondamente. «Syd ha sempre avuto questa fobia dell'età», afferma Pete Barnes che venne coinvolto nella complessità labirintica dei problemi e della mente di Barrett dopo la rottura con i Pink Floyd. «Voglio dire, quando cercavano di riportarlo in studio per registrare assumeva un atteggiamento molto difensivo e diceva: "Ho solo 24 anni, sono ancora giovane, ho tempo". La sua storia con quella setta religiosa potrebbe esserne in parte responsabile».

Comunque, dopo quella storia Barrett perse ogni interesse verso la spiritualità e poco dopo abbandonò anche la pittura. Eppure aveva già vinto una borsa di studio alla scuola d'arte Camberwell di Peckham: una grande occasione, per un altro genere di persone. Sia Dave Gilmour sia Storm affermano che la pittura di Barrett mostrava un potenziale eccezionale: «Syd era un grande artista. II suo lavoro mi piaceva ma si è fermato. Prima la religione, poi la pittura. Lentamente iniziava a staccarsi da tutto».


Certamente restava la musica. The Abdabs... beh, lasciamoli perdere e consideriamo The Pink Floyd Sound, che era sempre il vecchio gruppo tranne Bob Close, che «non si è mai inserito». II nome «The Pink Floyd Sound» è un'invenzione di Syd, ispirata ad un disco di blues che lui possedeva in cui suonavano due bluesmen della Georgia: Pink Anderson e Floyd Council. I due nomi si intrecciavano bene... Comunque, il gruppo non era ancora molto ispirato: non produceva materiale originale, solo versioni di Louie Louie e Roadrunner a cui erano inframezzate abbondanti dosi di stacchi stravaganti. Immagino fossero qualcosa di simile ai Blues Magoos. In quel periodo la follia esplodeva negli Stati Uniti, era il 1966, l'anno degli Yardbirds, delle Mothers of Invention e dei primi gracidii originali provenienti dalla West Coast. Per non parlare di Revolver e di Eight Miles High.

Era tutto pronto per la grande esplosione psichedelica del 1967, per l'Estate dell'Amore. Comunque, i componenti di The Pink Floyd Sound in quel momento stavano certo pensando al futuro. Peter Jenner, assistente alla London School of Economics e John «Hoppy» Hopkins erano tra il pubblico durante uno dei loro spettacoli e restarono tanto impressionati da offrire loro una sorta di contratto. Jenner ammette che «era una delle prime situazioni rock cui assistessi, non sapevo proprio niente dei rock» (In realtà Jenner e Hopkins avevano già fatto delle offerte almeno ad un altro gruppo prima dei Pink Floyd, un gruppo di New York di cui avevano ascoltato una registrazione in anteprima: i Velvet Underground).



«Se considero oggi i Floyd di allora, mi sembrano a un livello stentatamente semiprofessionale, allora però rimasi molto colpito dal suono della chitarra elettrica. II gruppo era quasi sul punto di sfasciarsi. Era strano. Pensavano proprio di farla finita ma cambiarono opinione». II primo stratagemma furono le luci spettacolari e i concerti «extraterrestri». Quello successivo fu dare l'avvio alla tendenza a suonare solo composizioni originali. A questo punto arriva Syd Barrett. Non aveva ancora composto vere canzoni, tranne Effervescing Elephant: quella strana canzone fatta di nonsense, composta quando aveva più o meno sedici anni. Aveva anche composto la musica per una poesia intitolata Golden Hair, tratta dall'Ulisse di Joyce, ma niente oltre questo.

Jenner: «Syd era proprio sconvolgente. Voglio dire, la sua inventiva era quasi sbalorditiva. Tutte le canzoni dei Pink Floyd di quel periodo furono scritte in non più di sei mesi. Lui iniziò allora». La prima manifestazione dei talento compositivo di Barrett fu la creazione di uno strano piccolo classico: Arnold Layne. Una canzone sinistra e vagamente commerciale, che parla dei vaneggiamenti crepuscolari di un perverso travestito. Qualcosa di fantasioso e, al tempo stesso, di singolarmente orripilante. 

II disco fu bandito anche da Radio London, che ritenne le sue caratteristiche un po' troppo strane perfino per i criteri di una radio pirata. I Floyd erano ormai importanti nella Swinging London. Considerando oggi quel periodo, nacquero proprio come un gruppo di studenti d'arte un po' ingenui, con occhiali da vecchietta stile Birds (le prime immagini pubblicitarie sono particolarmente buffe), ma la loro musica in qualche modo faceva presa. Certamente abbastanza perché un personaggio popolare come Brian Epstein si lasciasse andare a lodi entusiaste alla radio francese e perché tutte le riviste alla moda riprendessero la citazione.





Ci furono perfino alcuni spettacoli in TV: buoni programmi d'avanguardia, a notte fonda, per la gente alla moda di Hampstead, come ad esempio Look of the Week, durante il quale i Floyd suonarono Pow R. Toc H. Ma ascoltiamo qualcosa di più a proposito dell'inventiva di Syd. Di nuovo Jenner: «Era molto influenzato dagli Stones, dai Beatles, i Birds e i Love. Dagli Stones più degli altri. Consumò molto rapidamente la sua copia di Between The Buttons, E anche l'album dei Love. Una volta, cercavo di parlargli di una canzone di Arthur Lee di cui non ricordavo il titolo, così mi misi a canticchiarne il ritornello. Syd prese la chitarra e mi accompagnò. In seguito utilizzo quegli accordi per il ritornello principale di Interstellar Overdrive».

E il suo modo di suonare la chitarra? «Beh, aveva una tecnica che io trovavo molto piacevole. Comunque non era un eroe della chitarra, voglio dire, non era neppure lontanamente paragonabile a Page o a Clapton». II culto dei Floyd cresceva, mentre la creatività di Barrett scopriva la sua strada. La creatività di allora preparò il terreno per quella che può essere descritta solo come la congiunzione, nella loro quintessenza, delle due forme ideali nella dimensione psichedelica inglese: stravaganze musicali rococò che sostenevano l'improvvisa attrazione di Barrett verso la dimensione artistica degli antichi e fantasiosi folli inglesi, dove dimorano le simpatie di Edward Lear Kenneth Grahame. Naturalmente il vecchio perverso Lewis Carrol sedeva a capotavola, per il tè.




E così Arnold Layne e i suoi versi frammentari puntavano decisi verso la cerimonia dei Giochi di Maggio, verso See Emily Play. «Dormivo in un bosco, di notte, dopo aver suonato da qualche parte, quando ho visto una ragazza apparire davanti a me. Quella ragazza era Emily».  Così disse il grande Syd nel 1967, ovviamente sorpreso da tutto questo come un aquilone smarrito in primavera. E per una volta si trattava di vera gloria. Piper At The Gates Of Dawn fu registrato nello stesso periodo dei Sergeant Pepper e i due gruppi si incontrarono di tanto in tanto per conoscere i rispettivi prodotti. McCartney si divertì a concedere la sua benedizione papale a Piper, un album che resta il mio ricordo musicale più amato del 1967, perfino più caro dei Pepper o di Younger Than Yesterday. (Tutto l'album tranne Bike, che ha una base folle e contiene delle eccentricità di Barrett, che iniziava a perdere il controllo: ghiribizzi psichedelici troppo forzati.)

Iniziavano ad accadere cose strane tra i Pink Floyd e in particolare in Syd Barrett. See Emily Play era al quinto posto in classifica, il che rese possibile a Barrett esprimere più che adeguatamente il suo periodo di infatuazione da pop star fino in fondo: i ricci di Hendrix, i caffetani di Granny's, gli stivali di serpente, le Fender Telecaster, tutto era suo, bastava chiedesse. Ma c'erano già degli influssi destabilizzanti. Dapprincipio ci furono i suoi problemi e lievi crisi da primadonna ma pian piano i Floyd, Jenner e gli altri, si resero conto che stava succedendo qualcosa di più profondo. Basta considerare le apparizioni dei Floyd a Top Of The Pops per presentare Emily. Jenner: «La prima volta Syd si era conciato come una pop star. La seconda si presentò con il vestito di tutti i giorni, un po' trasandato, con la barba un po' lunga. La terza volta arrivo in studio con i vestiti da pop star e li trasformò in veri e propri stracci durante il servizio televisivo».





Ci doveva essere senz'altro qualche nesso con la dichiarazione pubblica di John Lennon che annunciava che non sarebbe apparso a Top Of The Pops. Sembra che Syd considerasse Lennon una specie di pietra di paragone, con la quale misurare la sua condizione di pop star. «Syd si lamentava sempre che John Lennon possedeva una casa mentre lui aveva solo un appartamento», dice Peter Barnes. Ma c'erano manifestazioni ben più oscure dello squilibrio incombente nella psiche di Barrett.

In quel periodo, Syd aveva una relazione con una ragazza che si chiamava Lynsey: una storia che prese una piega spiacevole quando la ragazza apparve, dopo essere stata selvaggiamente picchiata, sulla soglia di casa di Peter Jenner. «Non potevo crederci. Avevo un'immagine precisa di Syd, mi sembrava una persona veramente gentile e in fondo lo era».

Qualcosa era andato definitivamente di traverso. In effetti ci sono molti racconti spiacevoli a proposito di questa storia particolare su cui è meglio non soffermarsi (qualcuno sostiene perfino che Barrett chiuse la ragazza in una stanza per una intera settimana, passandole pane e acqua sotto la porta per non farla morire di fame). Ma la situazione peggiorava, spesso gli occhi di Syd parevano bloccarsi in uno sguardo fisso, presago oltre che terrificante, ma che realmente iniziava ad atterrire chi era presente. La testa ondeggiava lievemente, gli occhi diventavano appannati e gonfi. Syd ti fissava e contemporaneamente guardava al di là di te.




Una cosa era spaventosamente ovvia: la mente del ragazzo prodigio era sempre più sconvolta. Forse erano le droghe. In quel periodo Barrett ne usava quantità eccessive e molti ritenevano che il suo metabolismo fosse troppo fragile per sostenere tutte quelle sostanze chimiche. Certamente le droghe aggravavano, forse solo ulteriormente, il suo stato mentale. Ma sarebbe troppo facile scrivere di Barrett come di una persona disgraziata e amputata dall'acido, anche se qualcuno dichiara che durante un soggiorno di due mesi a Richmond con una coppia i cui componenti si chiamavano opportunamente «Mad Sue» e «Mad Jock», Syd avrebbe bevuto ogni mattina una tazza di tè corretto, a sua insaputa, con pesanti dosi di acido.

Tale attività può senz'altro provocare danni cerebrali ma temo che si debba piuttosto procedere decisamente con gli occhi bendati in un paesaggio freudiano. Molta della gente con cui ho parlato afferma, infatti, che i problemi di Syd hanno radici in alcuni traumi infantili. Syd era il più giovane in una famiglia composta da otto figli; fu duramente colpito dall'improvvisa morte del padre quando aveva 12 anni, probabilmente rovinato da una madre energica che potrebbe avere imposto una strana distinzione tra i dettami della fantasia e della realtà. Ogni tesi diviene inevitabilmente un patchwork di insinuazioni e potenziali meccanismi causa effetto. «Si pensa che tutti si divertano quando sono giovani - non so perché, ma io non l'ho mai fatto», diceva Barrett in un'intervista a Rolling Stones, nell'autunno del 1971.



Peter Jenner: «Credo che noi tendessimo a sottovalutare l'entità del suo problema. Voglio dire, io pensavo di poter funzionare come mediatore, dopo aver insegnato sociologia alla L.S.E. e tutte quelle chiacchiere fumose... «Penso anche... una cosa di cui mi pento oggi è di aver fatto a Syd delle richieste. Lui aveva scritto See Emily Play e di colpo ogni cosa andava considerata in termini commerciali. Penso che cercando di costringerlo a produrre un altro pezzo di successo, possiamo averlo spinto verso uno stato paranoico. Bisogna anche dire che benché noi potessimo sembrare i beniamini a Londra, nei sobborghi la situazione era veramente terribile. Prima di Emily ci tiravano addosso degli oggetti, durante Io spettacolo. Dopo Emily c'erano ragazze scatenate che volevano ascoltare i nostri pezzi di successo». Così, mentre i Floyd scoprivano le sale da ballo, Syd iniziava a stare male. Per il novembre successivo venne organizzato un tour negli Stati Uniti: tre giorni al Fillmore West di San Francisco e un ingaggio al Cheetah Club di Los Angeles. Lo squilibrio psichico di Barrett iniziò a manifestarsi veramente quando i Floyd furono spinti a fare delle apparizioni televisive. 

L'apparizione al Dick Clark's Bandstand fu disastrosa, perché c'era bisogno di un impegno mimico da parte del gruppo e «quel giorno Syd non mosse le labbra». The Pat Boone Show fu completamente surreale: Boone tentava di intervistare Barrett sullo schermo, rivolgendogli domande particolarmente stupide e ottenendo per tutta risposta una muta occhiata lacerante, uno sguardo classicamente catatonico. «Alla fine abbiamo annullato la partecipazione a Beach Party», dice Andrew King, partner di Jenner nella gestione del tour. Così, quando ritornarono in Inghilterra, gli altri Floyd avevano preso la decisione. Da un lato, Barrett era il compositore e la figura centrale del gruppo; dall'altro, la sua follia era eccessiva per poterci avere a che fare. Non si riusciva più a comunicare con lui.




La pazienza non era stata premiata e la scissione era probabile. Ma non ebbe luogo prima di una session finale registrata in studio, al De Lane Lea, in una situazione folle e anarchica che diede vita a tre delle ultime espressioni davvero vitali di Barrett. Sfortunatamente, solo una canzone è stata distribuita. Jug Band Blues, il solo pezzo di Barrett in Saucerful Of Secrets, è quasi la spiegazione del perché Syd non appare nel resto dell'album. «Vedi, perfino in quel momento, Syd sapeva cosa in realtà gli stava accadendo», afferma Jenner. «Voglio dire, Jug Band Blues è l'estrema autodiagnosi di uno stato di schizofrenia».

"E’ molto gentile da parte tua pensare che io sia qui, E io ti faccio la cortesia di spiegarti che non sono qui. E mi chiedo chi sta scrivendo questa canzone". 

Al centro di questo pezzo, Barrett aveva inserito perfino la musica dell'Esercito della Salvezza. I due pezzi non distribuiti (incidentalmente, contrariamente a ciò che si crede, questi sono gli unici pezzi non usciti che Barrett abbia mai registrato) sono entrambi creazioni incomplete.

II primo è un'imperiosa esibizione di agghiacciante pazzia pre-Beeftheart. Scream Your Last Scream...

Urla il tuo ultimo urlo Vecchia donna con la sporta Agita le braccia follemente, follemente Ultimi piani delle case Case topi
Strofinerà mele a quattro zampe Mezza sbronza con la grassa Mrs. Dee Noi guarderemo la televisione in ogni momento. 




Anche l'altra canzone, Vegetable Man, è una canzone folle. «Syd», ricorda Jenner, «era a casa mia poco prima di andare a registrare. Siccome c'era bisogno di una canzone si mise a descrivere quel che indossava in quel momento e aggiunse un coro che diceva: "Uomo vegetale, dove sei?"».

A tutto questo seguì un tour in Gran Bretagna: Jimi Hendrix, The Move, The Nice e i Pink Floyd. Ma i problemi aumentarono. Spesso Syd non si presentava in tempo, a volte non suonava affatto e rimaneva solo seduto sul bus. Gli altri componenti dei Pink Floyd divennero amici dei Nice (il chitarrista David O'List suonava con il gruppo quando Barrett non era in grado di farlo).

Non sarebbe stato naturale per i due re senza corona dell'acid-rock, Hendrix e Barrett, stringere in qualche modo i rapporti? «Non proprio», dichiara Jenner, «Hendrix aveva la sua limousine. E Syd non parlava veramente con nessuno. Voglio dire, ormai andava in scena e suonava, trascinandosi da un capo all'altro del palco, sempre Io stesso accordo. Era in uno stato di sperimentazione totalmente anarchica e non prendeva mai in considerazione gli altri membri dei gruppo». C'è da aggiungere che per Syd i Floyd erano il suo gruppo. Quando arrivò Dave Gilmour, vecchio amico e buon chitarrista che aveva lavorato in Francia con vari gruppi, le conseguenze furono ovvie. Jenner: «In quel periodo Dave suonava la chitarra nello stile di Hendrix, i suoi pezzi erano molto efficaci. II gruppo gli chiese di suonare come Syd Barrett». Certamente, ma non ti pare che Dave Gilmour avesse un suo stile, un suono slide e ricco di eco?

«Quello era Syd. In scena Syd suonava con l'effetto slide, circondato da un mucchio di casse per rendere l'eco». I Floyd suonarono in cinque non più di quattro volte, poi Barrett si ritrovò fuori. Era una mossa coraggiosa. Lui reagì e tutti sembravano d'accordo, sembrava tutto perfettamente legittimo. Tranne, forse, a Syd. Jenner: «Per quel che ne so io, Syd non ce l'ha con i Floyd. Potrebbe ancora chiamarlo il suo gruppo». Da questo punto in avanti la storia di Barrett impazzisce. Lo stesso Barrett ciondolava a Earls Court per fare le sue solite follie, non prima però di essere rimasto per un po' a South Kensington con Storm.



«Syd era ormai "in orbita". Viaggiava molto velocemente nella sua sfera privata e io pensavo di poter essere, in qualche modo, un mediatore. Vedi, credo si debba arrivare a capire che la follia di Syd non era collegata a nessun sviluppo lineare di eventi, semmai a uno stato confusionale circolare che mescolava insieme le situazioni e Io stesso Syd. Per quanto mi riguarda, non riuscivo nemmeno ad entrare in contatto con i suoi sguardi!» In quel periodo, i Floyd e la Blackhill Enterprise ruppero i contatti, dal momento che Jenner aveva scelto di puntare su Barrett.

Quello che è successo ai Floyd è ormai noto: sopravvissero e fiorirono, sviluppando il loro lato più elettronico. Syd no. Ci volle non meno di un anno di lavoro sporadico per terminare The Madcap Laughs, il primo album "solo" di Barrett. II responsabile della produzione cambiava continuamente: da Peter Jenner a Malcom Jones (che arrivo a metà dei lavoro) ed infine a Dave Gilmour e Roger Waters. In quel periodo il processo creativo di Barrett non era convincente, i risultati erano spesso incompleti e talvolta non si potevano nemmeno ascoltare. Fondamentalmente erano saggi di lontananza: il Pazzo che si agitava in modo bizzarro in preda alla sua confusione mentale. O forse stava annegando?

La mia testa baciava la terra lo ero quasi completamente giù... Per favore alza una mano lo sono solo una persona Ho tatuato tutto il mio cervello con catene eschimesi Vuoi perdermi Oh, non vorrai perdermi completamente? 

In Dark Globe l'angoscia è ancora più reale. Molti pezzi, comunque, come Terrapin, in un certo senso si ritraggono davanti a chi li ascolta. Esistono completamente solo all'interno della loro dimensione, come insetti strani o pesci esotici. Chi ascolta può solo osservarli mentre si muovono nella vasca.

Per molti aspetti Madcap è un prodotto geniale, per molti altri solo una stranezza provocata dall'acido. Comunque è un album vitale, ancora oggi è assolutamente unico nel suo genere. Jenner: «Penso che Syd fosse in buona forma quando ha fatto Madcap. Scriveva ancora delle belle canzoni, forse era nello stesso stato in cui aveva prodotto Jugband Blues». Storm: «II fatto è che tutti quei ragazzi volevano essere all'altezza di Syd, che era fuori di sé. Prendeva continuamente Mandrax. Era così sconvolto che durante quelle sessions la sua mano scivolava sulle corde, mentre lui cadeva dalla sedia».



Barrett, il secondo album, fu registrato in tempi molto più brevi. Per produrlo venne chiamato Dave Gilmour, che porto con sé Rick Wright e Jerry Shirley, il batterista degli Humble Pie. Gilmour: «A quel punto avevamo solo tre alternative, se volevamo far qualcosa con Syd. Potevamo lavorare con lui in studio, suonando mentre lui si occupava della registrazione; una cosa quasi impossibile, anche se l'abbiamo fatta registrando Gigolo Aunt. La seconda alternativa consisteva nel buttar giù una specie di traccia e poi fare in modo che lui ci suonasse sopra. La terza possibilità era che lui registrasse le sue idee di base solo, con la chitarra e la voce; poi noi avremmo cercato di farne venire fuori qualcosa. «In realtà io gli dicevo: "Beh, allora, Syd, cosa hai fatto?", lui ci si metteva e alla fine ne veniva fuori qualcosa».

In questo album, il processo di disgregazione di Barrett continuava a peggiorare. Più che un album sembrava un provino. Eppure le canzoni, anche se spesso erano vaghe e sembravano completamente fuori strada, talvolta sfrecciavano sostenute dalle visioni del brillante lirismo di Barrett al suo livello più alto. E il caso di Wolfpack, di Rats o della classica Trout Mask Replica che ha l'andatura di un tuono strascicato alla Beefheart e i cui versi sono folli nonsense a doppio taglio.

Topi, topi
Stendetevi a terra
Non abbiamo bisogno di voi
Ci comportiamo come gatti
Se pensate di non essere amati
Bene, noi lo sappiamo.





Probabilmente Dominoes è il pezzo più interessante dell'album ed è anche il solo indizio reale di quel che sarebbe potuto diventare il suono dei Floyd se Barrett avesse avuto un maggior controllo di se stesso. La canzone appartiene a un genere squisito, sembra un classico scenario di Lewis Carroll che sale a spirale, quasi eludendo il tempo e lo spazio:

Tu e io
E il gioco del domino
Mentre il giorno passa

Tutto questo prima di lasciarsi trasportare da un ritornello in accordo minore, quasi un archetipo dei Floyd che ricorda More. Gilmour: «Syd aveva terminato di cantare, la canzone era proprio finita, ma io volevo che svanisse gradualmente; così ho aggiunto la parte finale da solo. A proposito, lì ho suonato la batteria». In quel periodo Gilmour era probabilmente l'unica persona in grado di comunicare con Syd Barrett. «Oh, non credo proprio che chiunque potesse entrare in contatto con Syd. Ho fatto quei dischi perché mi piacevano le canzoni, non perché, come qualcuno potrebbe pensare, mi sentivo in colpa per aver preso il suo posto con i Floyd. Ero preoccupato, non volevo che rimanesse completamente in disparte... Anche il missaggio finale di Madcap l'ho fatto tutto io». Fra i due album "solo" realizzati per la EMI, la Harvest o Morrison avevano organizzato una serie di interviste con la stampa ma lo stile di conversazione di Barrett si adattava poco agli obbiettivi precostituiti dei media.



 La maggior parte di queste interviste non potevano aver alcun senso, oltre a certi vaneggiamenti verbali. Altre precipitavano immediatamente verso una conclusione o vivisezionavano con precisa attenzione i dettagli della malattia di Barrett. Peter Barnes fu uno degli intervistatori: «In apparenza, la situazione era abbastanza ridicola. Voglio dire, dovevi solo assecondarlo... Syd poteva dire qualcosa di assolutamente incongruo, a un certo punto, come ad esempio: "E dura, no?" e tu dovevi solo dire: "Sì, Syd, è dura", e la conversazione si sarebbe fermata su questo argomento per cinque minuti».
«A dire il vero, ascoltando la registrazione dell'intervista dopo un po' di tempo, mi sono reso conto che c'era una logica in quel che diceva, purtroppo Syd era capace di risponderti improvvisamente a una domanda che gli avevi rivolto dieci minuti prima, mentre tu eri ormai passato a un argomento completamente diverso!»

Probabilmente Barrett non aveva alternative. Comunque, un'altra sua fissazione era sempre stata la manipolazione instancabile della sua bella chioma di capelli neri. A un certo punto il nostro eroe aveva deciso di rasare tutte le flessuose aggiunte al suo cranio, trasformandolo in una rada irsuta giustamente nota come "taglio da riformatorio". Jenner: «Non riesco a fare osservazioni troppo precise ma sono tentato dall'idea di considerarlo un gesto simbolico. Capisci, l'addio al mondo della pop star, qualcosa del genere». A quel punto Barrett era nel periodo di decadenza più profonda. Abitava a Cambridge, nella cantina di sua madre. Da allora in poi la sua storia diventa molto deprimente. In una intervista concessa a Rolling Stone, nel Natale del 1971, Barrett sembrava abitare la sua stessa vita come un estraneo, fornito di una sorta di bizzarra fiducia in se stesso. A un certo punto dell'intervista dice: «Mi sento veramente tutt'uno. Penso perfino di poterlo essere».

Quasi un anno dopo, per l'assoluta frustrazione causata dalla propria inerzia, Barrett sembrò completamente impazzito e si spaccò la testa contro il soffitto dello scantinato in cui viveva. Fra queste due date, Syd tento di registrare qualcosa in studio. «Fu un aborto», dichiara Barnes, «Barrett continuava a sovraincidere pezzi di chitarra su pezzi di chitarra, fino a produrre un casino totale. Non voleva mostrare a nessuno i suoi testi, temo che fosse perché non ne aveva scritto neanche uno». Anche Jenner era presente: «La situazione era terribilmente frustrante, talvolta apparivano sporadiche visioni del vecchio Syd ma poi tutto si distorceva di nuovo, orribilmente. Di quelle registrazioni non resta nulla».

Poi ci furono gli Stars, un gruppo formato da Twink, ex batterista dei Tomorrow, dei Pretty Things e dei Pink Fairies. Twink era nato a Cambridge e conosceva Barrett abbastanza bene. In qualche modo trascinò il Folle a formare un gruppo con lui e un bassista che si chiamava Jack Monck. E opinione diffusa che Barrett venisse solo strumentalizzato; la sua fama leggendaria serviva solo a gonfiare un gruppo che in realtà era mediocre e privo di entusiasmo. II principale spettacolo degli Stars ebbe luogo a Cambridge, al Corn Exchange, dove furono il gruppo spalla degli MC5. Fu una dimostrazione di totale mancanza di affiatamento. Dopo un'ora circa, Barrett spense la sua chitarra e se ne uscì tranquillamente di scena per tornare nel suo scantinato.





Da allora, può darsi che Syd Barrett abbia lavorato in fabbrica per una settimana / che abbia lavorato come giardiniere / che abbia cercato di iscriversi ad architettura / che abbia coltivato funghi nella sua cantina / che sia stato un barbone / che abbia passato due settimane a New York suonando per la strada / che abbia cercato di lavorare come roadie durante gli spettacoli dei Pink Floyd.

Sono tutte storie che mi sono pervenute da fonti più o meno attendibili. E più probabile che siano delle invenzioni. Ma una cosa sembra chiara: Syd Barrett era ormai incapace di scrivere canzoni. («O forse scrive canzoni ma non vuole mostrarle a nessuno» - Jenner). Nel frattempo Barrett è diventato una misteriosa figura carismatica nell'intero mondo del rock. Arthur Lee e Brian Wilson sono le sole altre figure che si stagliano all'interno di quel gruppo, attraverso una notorietà crepuscolare intessuta di mito. In America il suo culto ha raggiunto notevoli proporzioni, tanto che la Capitol Records ha finalmente pubblicato i due album "solo" in una doppia confezione mentre in altri Paesi, diversi tra loro come la Francia e il Giappone, Barrett è oggetto di interesse fanatico.

C'è da aggiungere la "Syd Barrett International Appreciation Society", che ha il suo centro in Inghilterra e produce riviste, magliette e distintivi. Sfortunatamente è tanto insignificante quanto fanatica. «Ho parlato della "Society" con Syd», dice Peter Barnes, «si è limitato a dire che andava bene. Non gliene importa niente. Mi sembra un'ironia della sorte ma Syd è molto più famoso ora che non fa niente, in quanto silenziosa immagine di culto, che non quando era ancora attivo». E ancora, persone illustri si offrono in tutti i modi per riportare Syd negli studi. Da molto tempo Jimmy Page vorrebbe produrre Barrett, Eno si è informato ansiosamente per una sua eventuale collaborazione, da secoli Kevin Ayers vuole formare un gruppo con il Folle. Anche David Bowie è un ammiratore zelante (la sua versione di See Emily Play, su Pin-Ups, servirà certamente a mantenere Syd in discrete condizioni economiche per qualche mese.) «Syd ha sempre detto che il giorno in cui ritornerà in studio si rifiuterà di avere un produttore. Parla ancora di un suo terzo album. Non so, penso che Dave sia l'unico che potrebbe farcela. Sembra che tra loro ci sia un rapporto, che si stabilisca un contatto».


Le ultime parole sono di Dave Gilmour: «Non so cosa Syd pensi o come pensi. Certo, potrei ritornare in studio con lui, comunque ho progetti analoghi. L'ultima volta che l'ho visto era Natale, da Harrod's. Ci siamo detti solo ciao. Comunque penso che fra tutta la gente con cui hai parlato, probabilmente solo io e Storm conosciamo tutta la storia e possiamo metterla a fuoco nel modo giusto. «Voglio dire, Syd era uno strano tipo anche a Cambridge. A suo modo era una figura molto rispettata. «Secondo me all'origine di tutto c'è una situazione familiare difficile. La morte di suo padre lo ha colpito molto duramente. Sua madre lo ha sempre viziato e lo ha convinto di essere una specie di genio. Ricordo di essermi iniziato a preoccupare davvero durante una registrazione per See Emily Play. Già allora era strano. Quello sguardo!
«Certo era abbastanza ovvio che fossi adatto a sostituirlo, almeno in scena... Era impossibile valutare i suoi sentimenti in proposito. Non credo che Syd abbia opinioni comuni. Funziona su un piano logico assolutamente diverso, qualcuno dirà: Oh, sì, lui è a un più alto livello di consapevolezza cosmica ma alla base di tutto questo c'è qualcosa di completamente sbagliato. «Non furono solo le droghe, prendevamo acidi insieme prima della storia con i Floyd ma il suo punto debole mentale ha debordato in modo sproporzionato. Ricordo che gli accadevano molte stranezze: a un certo punto si mise il rossetto e i tacchi alti, sostenendo di avere tendenze omosessuali. Tutti pensavano che dovesse andare da uno psichiatra, in effetti qualcuno mostrò una sua intervista a R.D. Laing e Laing disse che gli sembrava incurabile. Cosa potevi fare a quel punto? «Abbiamo fatto un paio di canzoni per Ummagumma, registrandole dal vivo, abbiamo usato Jugband Blues senza altri motivi, perché era proprio una bella canzone. Intendo dire che la collezione Nice Pair andrà bene per un paio d'anni, il che rimanda il giorno del giudizio. «Non so, se Syd fosse lasciato ai suoi progetti potrebbe farcela, chissà, comunque è una tragedia, una grande tragedia, perché lui è un innovatore. Uno dei tre o quattro grandi, come Bob Dylan. «Eppure so che qualcosa non funziona, perché Syd non è felice. E questo è davvero l'unico criterio possibile, non credi? Comunque questo è il prezzo che si paga per essere una leggenda del nostro tempo».


* (T.S.Eliot - La Terra Desolata - Morte per Acqua)

pinkfloydsound