uno dei due è l'altro

uno dei due è l'altro

mercoledì 25 novembre 2015

A CHE PUNTO È LA GUERRA?

di Sebastiano Isasia

Riprendendo alcuni punti già toccati nel precedente post


foto di DD*



L’ipotesi secondo cui la morale perde
di forza coercitiva con l’aumentare della
distanza si fonda sull’idea che è soprattutto
il vivo ricordo del delitto a tenere desta la
coscienza. Se il criminale si allontana a
sufficienza dal luogo del delitto, i sentimenti
morali non hanno più di che alimentarsi.
Ritter, Sventura lontana, 2004.

Dobbiamo chiederci che cosa era successo nelle
masse perché seguissero un partito i cui obiettivi
erano diametralmente opposti, sia dal punto di
vista oggettivo che soggettivo, agli interessi delle
masse lavoratrici.
Wilhelm Reich, Psicologia di massa del fascismo, 1933.




1. La seducente propaganda del Califfato.


Partire dalla religione per comprendere la natura dell’attuale conflitto mondiale è il modo migliore per mettersi nelle condizioni di non capirci niente di essenziale. È oltremodo sciocco, ad esempio, credere che lo jihadismo che tanto attrae migliaia di disperati e di diseredati (e non faccio della stucchevole retorica sociologica: vedere, ad esempio, i tantissimi giovani proletari e sottoproletari tunisini che si arruolano sotto le nere bandiere del Califfato per guadagnarsi il pane quotidiano) si spiega con un’errata («aberrante», «irrazionale», «infondata») interpretazione del Corano, come sostengono soprattutto gli intellettuali occidentali devoti ai Sacri Lumi. In questa vicenda, come nelle altre analoghe, la religione è l’ultima cosa che occorre prendere in considerazione. Come ho già scritto, con la religione si può spiegare tutto, e il suo contrario. L’ideologia jihadista è messa al servizio di interessi che non hanno nulla a che fare né con Allah, né con le numerose e bellissime vergini che attendono i martiri che si immolano nel suo Misericordioso nome. Nel solo 2015 quegli interessi hanno causato la morte di circa 23.000 musulmani: si tratta, infatti, soprattutto di un conflitto interno al mondo musulmano. Sciiti contro sunniti? Ci risiamo! Anche qui non dobbiamo rimanere impigliati nella fenomenologia ideologica (o religiosa) della vicenda. Si tratta in primo luogo di una guerra, combattuta il più delle volte “per procura”, per stabilire nuovi rapporti di forza nel Vicino e Medio oriente (schematizzando: Turchia, Arabia Saudita, Qatar, Kuwait, da una parte; Iran, Siria e Libano dall’altra), così come in Nord Africa. La confessione religiosa, che ha una forte presa sulle masse, è indubbiamente un potente collante politico-ideologico-culturale, e come tale non va affatto sottovalutata; ma non è certo per affermare una certa lettura del Sacro Testo che, ad esempio, arabi e iraniani si sparano addosso – magari solo per interposte milizie armate. L’antagonismo confessionale cela insomma un antagonismo molto profano, diciamo così, sintetizzabile nel concetto di Potere:
 economico, politico, ideologico, psicologico,
 in una sola e più adeguata parola: sociale.


In un articolo apparso sul Courrier des Balkans del 9 giugno 2015, Jean-Arnault Dérens commentava la intelligente propaganda dello Stato Islamico rivolta ai giovani che vivono nei Paesi balcanici. «L’appello alla Jihad risuona nel deserto della interminabile transizione balcanica», scriveva Dérens. Un video di una ventina di minuti perfettamente girato, curato nei minimi particolari e costruito come un video-gioco fa la storia dei Balcani; giovani dall’aspetto per nulla fanatico invitano altri giovani a seguirli sulla strada jihadista, e con un tono pacato suggeriscono ai coetanei ancora impigliati nella demoniaca cultura occidentale ad uccidere senz’altro «i miscredenti» ovunque essi si trovino e con ogni mezzo a disposizione: dalla bomba al veleno. Fate saltare automobili, avvelenate il cibo: Allah stesso lo vuole! Nel video lo Stato islamico viene rappresentato come un mondo pulito, dignitoso, privo di stress, attento ai bambini, ripresi a giocare in aree attrezzate. «Si presenta una nuova visione del mondo molto più allettante del sogno occidentale, un sostituto alle promesse di prosperità scomparse nel deserto dell’interminabile transizione balcanica, e allora si chiede giustamente ai moderati come rispondere a questo messaggio, come rispondere a chi non ha denaro, a chi non ha lavoro, a chi ha come alternativa il trafficare in droga o truccare automobili, oppure fare carriera in un partito politico corrotto o guadagnare qualche euro andando ad agitare le bandiere in qualche meeting politico; se questa è la realtà quello che propone il califfato può essere per molti giovani qualcosa che assomiglia alla vera vita, a una vita normale. Vivere velocemente e morire giovani non è molto nuovo come programma di vita; ci sono quelli che credono di guadagnarsi il paradiso ma anche quelli che hanno la convinzione che almeno avranno vissuto intensamente, di essere morti per una causa, e morire per una causa è sicuramente meglio che morire per niente, per una giovinezza senza prospettive, per un lavoro in nero senza documenti in Italia o in Germania, oppure finire in un centro di detenzione in Francia. Eppure questa vita tranquilla e degna che propone lo Stato islamico e le motivazioni economiche non sono quelle più importanti: chi ha vent’anni non è forse pronto a fare qualcosa per realizzare i propri sogni? Non è disposto a battersi per un ideale? E quali ideali restano nel triste deserto dell’interminabile transizione dei Balcani? Gli Imam possono naturalmente denunciare questa cattiva interpretazione del Jihad, i Governi possono cercare di fermare e arrestare chi vuole partire per andare a combattere all’estero, oppure arrestare coloro che delusi tornano a casa. Le anime belle possono indignarsi per il programma medievale dello Stato islamico ma questo continuerà a espandersi e attirare persone fino a quando non ci saranno dei nuovi sogni e nuovi progetti in grado di essere proposti ai giovani dei Balcani e non solo nei Balcani».



Molti giovani, scriveva Reich nel 1933, «erano fortemente impressionati dalla fisionomia esterna del partito di Hitler, dal suo carattere militare, dalla dimostrazione di forza, ecc. Fra i mezzi simbolici di cui si serviva la propaganda il più appariscente era senz’altro il simbolo della bandiera» (Psicologia di massa del fascismo). Diciamocelo: anche la bandiera del Califfato è un eccellente brand.








2. La natura della “Terza guerra mondiale combattuta a pezzi”.


«La capitale francese, vittima di un attentato disumano che non ha nessun legame con la religione, paga un prezzo altissimo alle politiche portate avanti dall’Eliseo in Medio Oriente e Africa». Così Limes sintetizza la posizione di padre Giulio Albanese, da sempre assai critico nei confronti dellaGrand France” di Hollande, la quale «non fa sconti a nessuno!». Scrive padre Albanese: «Simile violenza richiama alla mente la lamentazione di Carlo Levi: “La sola ragione della guerra è di non aver ragione (ché, dove è ragione, non vi è guerra); che le guerre vere ed efficaci sono soltanto le guerre ingiuste; e che le vittime innocenti sono le più utili e di odor soave al nutrimento degli dèi”». Io assai più prosaicamente, ho parlato di «concime gettato sul terreno per fertilizzare gli interessi economici e geopolitici di Potenze grandi, medie e piccole». E concludevo: «La verità è che se noi non ci occupiamo dell’imperialismo, l’imperialismo si occupa di noi. 
Siamo tutti ostaggi e vittime del sistema mondiale del terrore».



A mio avviso questa guerra, come tutte le guerre che l’hanno preceduta e che probabilmente la seguiranno, ha una solidissima quanto disumana ragione: quella che, appunto, fa capo agli interessi sistemici delle classi dominanti, interessi che trovano una puntuale sintesi nella politica interna ed estera (una distinzione peraltro sempre più labile e “problematica”) degli Stati, piccoli e grandi, “tradizionali” e di nuovo conio, “simmetrici” e “asimmetrici”. Questi Stati rappresentano un micidiale strumento di difesa e di promozione di quegli interessi: tutto il resto è cinica propaganda politico-ideologica tesa a ingannare la gente, la quale purtroppo oggi si lascia ingannare con una facilità che fa spavento, almeno agli occhi di chi crede sia possibile, oltre che auspicabile, la fuoriuscita dell’umanità dalla maligna dimensione del dominio di classe, fonte di ogni sofferenza, di ogni ingiustizia, di ogni orrore.





3. Psicologia di massa del Dominio. 


Leggo sul Manifesto: «Una migliore intelligence può valere molto più che una compressione generalizzata di diritti e libertà. Oggi e nel futuro, una risposta al terrorismo la sinistra deve saperla dare, se non vuole essere travolta dalla richiesta popolare di sicurezza. Nessun appeasement, nessuna tolleranza, ma con punti fermi. Che sulle garanzie di libertà e diritti non si facciano passi indietro. Che i poteri di qualunque autorità non siano mai sottratti a limiti e controlli. Che in particolare il controllo di costituzionalità e quello giudiziario siano salvaguardati nell’ampiezza e nell’incisività. Che si perseguano politiche inclusive e dialogo interculturale con la comunità di fede islamica, per rafforzarne gli anticorpi contro il veleno del terrorismo». Troppo comodo: se vuoi il fine, devi accettare anche i mezzi! Oggi Arturo Diaconale scrive che l’Italia non ha bisogno di leggi speciali perché la legislazione d’emergenza nel Belpaese è già stata fatta negli anni Settanta, ai tempi della lotta contro il terrorismo condotta soprattutto, com’è noto, dai “comunisti” e dai democristiani. Almeno per quanto riguarda la repressione il nostro Paese è all’avanguardia. «Sbaglia chi si allarma temendo che l’esempio francese faccia scuola anche in Italia e da un momento all’altro possa spuntare qualcuno a Palazzo Chigi deciso ad imitare Hollande ed a chiedere una serie di leggi e poteri speciali per combattere il terrorismo islamico. Chi nutre questa preoccupazione compie un serio errore. Non perché nel nostro Paese non possa venire fuori un qualche imitatore del socialista autoritario francese. Ma perché per combattere il terrorismo degli islamisti da noi non c’è alcun bisogno di emanare poteri e leggi speciali. Da noi le leggi emergenziali ci sono già da lungo tempo. Questa legislazione emergenziale è in vigore dagli anni Settanta. E, sia pure provocando distorsioni nello Stato di diritto, ha ottenuto sicuramente una serie di buoni risultati» (L’Opinione). Ma si può sempre migliorare, caro Diaconale! La frecciata finale di Arturo: «Per una volta i cugini sono stati anticipati. Purtroppo nella corsa verso la deriva autoritaria!». Questi destri liberali, sempre a cianciare di «deriva autoritaria»! Basta con questo falso garantismo: lo Stato democratico va difeso, costi quel che costi! Per non parlare del nostro stile di vita… A proposito, se scrivo Abbasso la République (bourgeoise)! sono passibile di estradizione verso la Patria dei droits de l’homme? Meglio saperle prima certe cose!



Sembra che recenti sondaggi mostrano che la popolazione francese accetta di buon grado di perdere in termini di libertà personale per conquistare una maggiore sicurezza. Il Leviatano prima ci espone alla ritorsione del “nemico” (colui che gli contende una fetta di torta economica e geopolitica), e poi ci fa la grazia di proteggerci: che padre coscienzioso abbiamo avuto in sorte! E noi, come bravi bambini, abbozziamo e ringraziamo chi, dopo averci messo in pericolo per fare i suoi legittimi (è il capitalismo-imperialismo, bellezza!) interessi, poi fa di tutto per “difenderci” dal micidiale meccanismo di cui esso stesso è parte organica. Anzi, pretendiamo più protezione dallo Stato: più polizia, l’esercito a presidiare gli “obiettivi sensibili”, maggiori controlli all’ingresso degli immigrati, insomma più ordine. Che capolavoro! E che impotenza sociale! Io la chiamo, con scarsa originalità, psicologia di massa del Dominio. Come disse a suo tempo Wilhelm Reich, dobbiamo chiederci cosa è successo e cosa succede sempre di nuovo alle classi subalterne in particolare, e a tutti gli individui che vivono su questo pianeta in generale.









4. Chi sono i rivoluzionari?


Ho letto da qualche parte, forse ancora sul citato “Quotidiano comunista”, che «La Marsigliese è l’inno dei rivoluzionari». In effetti, pare che lo stesso Lenin non resistette alla tentazione di cantarla insieme ai compagni di viaggio sul mitico treno piombato, mentre faceva ritorno in Russia per tentarvi il noto Grande Azzardo. Non bisogna dimenticare che allora in Russia la rivoluzione borghese era un evento auspicato e appoggiato anche dal proletariato d’avanguardia, per certi versi soprattutto da esso, visto la pavidità della debole borghesia russa, la quale giustamente temeva una radicalizzazione del processo rivoluzionario. Previsione azzeccata: dopo La Marsigliese giunse il momento dell’Internazionale! Chiudo la breve parentesi “storica” e mi chiedo: chi sono oggi i “rivoluzionari”? Forse Loretta Napoleoni, autrice dell’interessante saggio Lo Stato del Terrore (Feltrinelli, 2014), dedicato all’economia del Califfato, conosce la risposta. Infatti, l’economista parla della guerra dell’Isis nei termini di una guerra patriottica di liberazione: «Chi nega questa definizione, e si trincera dietro la favola delle schegge di terroristi, o è in malafede o è un ignorante. L’Isis non è uno stato ideologico, ma il frutto di una lotta patriottica che grazie alla sua popolarità non fa fatica a trovare i soldi necessari. [Si tratta] di una guerra rivoluzionaria, antimperialista e nazionalista. Una guerra con la quale dovremo a lungo fare i conti» (www.ilmattino.it). Una guerra rivoluzionaria, antimperialista e nazionalista: quando ho letto per la prima volta questa “bizzarra” tesi, credevo di non aver capito bene quel che leggevo. Invece avevo capito benissimo. Ma chi sono io per…, lasciamo perdere! Oggi anch’io voglio affettare un atteggiamento polemico politically correct.



Per chi scrive, trattasi invece di una guerra ultrareazionaria (la posta in gioco, come si sa, è altissima: economica, geopolitica, ecc.) da tutte le parti in conflitto, e le cui vittime sono in primo luogo le classi subalterne ovunque esse si trovino a subire il dominio di classe: a Nord come a Sud, a Est come a Ovest, nel mondo cristiano come in quello musulmano, o buddista, induista, laicista, ateista. Ovunque e comunque! Poi, si sa, la guerra è “democratica”, e la bomba, più o meno intelligente, non fa alcuna distinzione di classe quando esplode in uno stadio piuttosto che in un bistrò, su un aereo di linea oppure sul tetto di una casa, di un ospedale, di una scuola. Come si vede, la paventata «favola delle schegge di terroristi» dalle mie parti non riscuote alcun credito. Quanto alla malafede e all’ignoranza non spetta certo a me dare giudizi su quel che scrivo. Accetto di buon grado, diciamo, il giudizio del lettore – 
purché sia a me favorevole, beninteso!





5. Carnefici e Mandarini.



Scrivono Carlo Freccero e Daniela Strumia: «La guerra di oggi è una materia che non può essere razionalizzata perché affonda le sue radici nel caos. Ecco, secondo noi, il nocciolo della cosa è che questo caos ha ben poco di casuale. Non è soltanto la somma di una serie di errori che ci sono sfuggiti di mano. È una ben precisa strategia bellica. Pensiamo ai “teocon” e alle loro pretese di instaurare un secolo americano basandosi sulla superiorità bellica dell’America. Questa strategia, in Iraq, è risultata fallimentare, come già a suo tempo l’invasione americana del Vietnam. Gli Usa hanno concepito allora una nuova strategia più economica: la strategia del caos. Disseminare i territori da conquistare di focolai di guerra e di resistenza. Armare la resistenza locale, fare la guerra con le vite degli altri. Una specie di strategia della tensione a livello mondiale. Da allora il mondo islamico si è rivelato nella sua profonda antidemocraticità. Si trattava di promuovere in modo più o meno occulto rivoluzioni locali in nome dei diritti umani: la Libia, le primavere arabe, la resistenza in Siria contro il crudele dittatore Assad. E poco importa se tutto questo veniva portato avanti con la collaborazione di alleati come l’Arabia Saudita o la Turchia che non eccellono sicuramente nella salvaguardia dei diritti umani. […] Viene sempre in mente una commedia che si intitola Un mandarino per Teo. Se dall’altra parte del pianeta, poteste decretare la morte di un mandarino, per ereditarne l’immensa eredità, voi cosa fareste? Tutti questi paesi governati antidemocraticamente hanno un elemento in comune: la presenza di risorse energetiche, gas, petrolio, altre materie prime. È normale schiacciare il bottone che ci permette di annetterci tutte queste risorse. Soprattutto se questa scelta avviene in nome di nobili valori. Tutto questo cessa di funzionare se il mandarino siamo noi. Su questo argomento circolano sul Net spiegazioni opposte. Da un lato la famosa affermazione di Hillary Clinton: “l’Isis è una nostra creatura che ci è sfuggita di mano”. Dall’altro, voci più maliziose insinuano, semplicemente, che sia giunta la nostra ora di sperimentare lo status di colonie statunitensi. In ogni caso vi invitiamo a riflettere. Se si applica la strategia del caos, come possiamo poi pretendere che questo caos non ci travolga?»
(Il Manifesto).

 La riflessione qui proposta è interessante, non c’è che dire; peccato che sia anche un tantino limitata, diciamo così. Infatti, si ha l’impressione che Potenze sistemiche come la Cina e la Russia non abbiano avuto, e non hanno alcun ruolo nella contesa interimperialistica (concetto probabilmente sconosciuto agli autori dell’articolo), e che l’Europa non sia che una colonia degli Stati Uniti, tesi che non reggeva a un’analisi geopolitica seria già ai vecchi e “cari” (non pochi sinistri ne hanno nostalgia!) tempi del confronto bipolare USA-URSS. Nel suo piccolo, il movimentismo politico-militare francese in Africa (vedi l’attacco in Libia nel 2011) e in Medio Oriente non ha nulla a che fare con le evocate materie prime? «Da venerdì mattina l’aviazione francese sta martellando jihadisti e altri ribelli del Nord in avanzata verso la pur lontana capitale Bamako. In ballo ci sono il rango transalpino e l’accesso alle risorse strategiche»: questo, ad esempio, scriveva Lucio Caracciolo, su La Repubblica 
del 13 gennaio 2013.



A mio modo di vedere l’attuale caos non è il risultato di una strategia pianificata a tavolino dagli Stati Uniti, i quali devono fronteggiare una reale caduta di potenza materiale e un reale indebolimento geopolitico (senza contare che la fiducia di Washington verso gli alleati non è granitica come prima), ma il prodotto altamente contraddittorio e conflittuale di tendenze sociali e geopolitiche già presenti nel vecchio mondo bipolare e che la fine della cosiddetta Guerra Fredda ha accelerato,
mentre ne produceva di nuove.



Naturalmente questo discorso deve risultare incomprensibile a chi è abituato a ragionare dal punto di vista degli Stati, non importa se piccoli o grandi, se appartenenti a questa piuttosto che a quella “sfera di influenza”, se filoamericani o antiamericani, se filorussi o antirussi, ecc. Il punto di vista di classe mostra una geopolitica affatto diversa da come la immaginano gli intellettuali progressisti che fanno dell’antiamericanismo la loro bussola e il massimo di “radicalismo” concepibile e praticabile su questa Terra.



Vediamo l’atra faccia della medaglia: «Il mondo paga con il sangue le conseguenze della ritirata scellerata dell’occidente dai teatri di guerra. […] Oggi è chiaro che è il non intervento nei teatri di guerra che ha generato instabilità creando spesso le condizioni per la proliferazione del terrore. E si capisce bene dunque perché il Pacifista Collettivo preferisca fischiettare e fare un passo di lato per non ammettere che una forza politica che rinuncia alla difesa è una forza politica che rinuncia a difendere i suoi cittadini e dunque, cari Corbyn e Grillo, è una forza politica che, essendo in mutande, molto semplicemente è incapace di governare» (C. Cerasa, Il Foglio. Lascio queste beghe interborghesi ai difensori del vigente ordine sociale, non importa se “progressisti” o “conservatori”
liberali o statalisti, pacifisti o interventisti. 
A proposito: dov’è finito il «Pacifista collettivo?».





*Dagli album personali di Domenico D'Amico, gentilmente concesse dal proprietario e arbitrariamente modificate con GIMP, su Linux Mint 17 "Qiana".

lunedì 23 novembre 2015

A.Lincoln, Androide - P.K.Dick, 1972 - Frammenti*




 Lo Edwin M. Stanton

Seduto al volante, Maury stava finendo il suo sigaro Corina Sport. Si rilassò sullo schienale e disse:
“Che cosa hanno in mente gli americani, oggi?”
“Sesso,” risposi.
“No.”
“Dominare i pianeti interni del sistema solare prima che lo facciano i russi.”
“No.”
“Dimmelo tu, allora.”
“La Guerra Civile del 1861.”
“Per l’amor di Dio!” esclamai.
“E’ la verità, fratello. Questa nazione è ossessionata dalla guerra fra gli stati. E ti dirò perché. E’ stata la prima e unica epopea nazionale cui abbiano partecipato gli americani, ecco il perché.” Mi soffiò in faccia  il fumo del suo Corina Sport. “Ci ha fatto maturare, noi americani."  […]

Accesi le luci interne della macchina e, girandomi, vidi sul sedile posteriore una lunga scatola di cartone avvolta in fogli di giornale. Aveva la forma di uno di quei fantocci per vetrine, un manichino. Dalla mancanza di rigonfiamenti all’altezza del petto conclusi che non doveva trattarsi di un manichino femminile. “E allora?” domandai.
“E’ il frutto del mio lavoro.”  […]



Gloria Swanson

“Ti dirò esattamente quello che ho. Là dietro, avvolto in quei giornali, 
ho Edwin M. Stanton.”
“E chi è?”
“Era il Segretario per la Guerra di Lincoln.”
“Eh?”
“E’ la verità.”
“Quand’è morto?”
“Molto tempo fa.”
“Proprio come immaginavo.”
“Ascolta,“ insistette Maury. “Là sul sedile posteriore, ho un simulacro elettronico. L’ho costruito io, o meglio, l’ho fatto costruire da Bundy. Mi è costato seimila dollari, ma ne valeva la pena. Fermiamoci laggiù a quella stazione di servizio con bar e lo tirerò fuori e ti darò una dimostrazione; è l’unica maniera."
Mi venne la pelle d’oca. “Sono convinto che lo farai.”  […]

Maury parcheggiò la Jaguar, si voltò e fece il giro per infilarsi nella parte posteriore. Cominciò a strappar via i giornali da quel fagotto in forma umana. Un attimo dopo, perdio se non ne emerse un anziano signore, gli occhi chiusi e la barba bianca, le mani intrecciate sul petto, che indossava un abito dalla foggia arcaica!
“Vedrai quanto è convincente questo androide,” dichiarò Maury, “quando ordina la sua pizza!”
Cominciò a trafficare coi pulsanti sulla schiena.
All’improvviso, il volto della cosa assunse un’aria seccata e taciturna e bofonchiò: “Amico mio, le dispiace togliermi le mani di dosso?” […]

Tutti e tre al ristorante, mangiammo una pizza troppo cotta ai bordi. Edwin M. Stanton fece una rumorosa scenata e minacciò col pugno il proprietario e dopo aver finalmente pagato il conto, ce ne andammo. […]




Il Lincoln


Il simulacro del Lincoln aveva cominciato ad agitarsi, sbattendo in aria  le sue grandi mani nel tentativo di mettersi seduto. Ammiccò, sogghignò; i suoi lineamenti marcati si contrassero. Maury ed io balzammo in avanti e lo aiutammo a sostenersi; accidenti se pesava come il piombo. Ma alla fine riuscimmo  a sistemarlo in posizione seduta, e lo appoggiammo contro la parete per impedire che scivolasse di nuovo.
Si lamentò.
C'era qualcosa in quel suono che mi fece rabbrividire. Voltandomi verso Bob Bundy, dissi:
"Che cosa ne pensi? Sta bene? Non Sta soffrendo, vero?"
"Non lo so." Bundy si passò nervosamente le dita fra i capelli, più volte; vidi che le mani gli stavano tremando.
"Posso verificarlo. I circuiti del dolore."
"I circuiti del dolore!"
"Già, deve averli, altrimenti andrà a sbattere  contro una parete o qualunque altro dannato oggetto,  e si massacrerà."
Bundy puntò di scatto un dito verso lo Stanton, che stava guardando in silenzio.
"Anche lui li ha. Che altro vuoi, per l'amor di Dio?"




Non c’era dubbio che stessimo assistendo alla nascita di una creatura vivente.  
Ora aveva cominciato ad accorgersi di noi; i suoi occhi, neri come il carbone, si muovevano su e giù, e da un lato all’altro, includendoci tutti, una visione completa di tutti noi. Quegli occhi non mostravano alcuna emozione, soltanto la pura percezione. Una circospezione che andava oltre la capacità immaginativa dell’uomo. L’astuzia di una forma di vita venuta da oltre i confini del nostro universo, da una terra completamente diversa. Una creatura precipitata con un tonfo nel nostro tempo e nel nostro spazio, cosciente di noi e di sé, della sua esistenza tra noi; quegli occhi neri e opachi rotearono, mettendo a fuoco senza tuttavia riuscirci, vedendo tutto e in un certo senso incapaci di distinguere una sola, singola cosa. Come se essenzialmente fosse ancora in sospensione; aspettando con una tale, infinita riservatezza, che potevo intravedervi la terribile paura che provava, una paura così grande che non poteva neppure essere definita emozione. Era la paura in termini di esistenza assoluta: la base stessa della sua vita. L’avevamo separato, strappato da qualche fusione che non potevamo sperimentare… non ancora, almeno. Forse, un giorno, tutti noi avevamo tranquillamente  riposato in quella fusione. Per noi, la frattura apparteneva a un lontano passato; per il Lincoln era appena accaduta… aveva luogo in quel preciso istante.

I suoi occhi si muovevano, ma non si erano illuminati; ancora posati in nessun posto e su niente, rifiutavano di percepire un determinato oggetto. “Perbacco,” mormorò Maury. "Ci fissa in modo davvero strano.”
C’era qualche profonda facoltà radicata in quella cosa. Era stata forse Pris a impartirgliela? Ne dubitavo. Maury? Fuori questione: nessuno dei due l’aveva fatto, né poteva essere stato Bob Bundy, il cui unico concetto di divertimento consisteva nel guidare come un pazzo fino a Reno per giocare e andare a puttane. Avevano riversato la vita nell’orecchio di questa cosa, ma era soltanto un trasferimento, non un’invenzione; avevano comunicato la vita, ma essa non aveva avuto origine in nessuno di loro, o in tutti loro insieme. Era un contagio; essi ne erano rimasti vittime una volta, e ora questa materia inerte l’aveva contratto a sua volta… per un po’. E che trasformazione. La vita è una forma assunta dalla materia… mi afferrai a questo concetto mentre la cosa-Lincoln acquistava coscienza di noi e di sé stesso. E’ questa una cosa che fa la materia. La più sbalorditiva… l’unica veramente sbalorditiva forma dell’universo; quella che, se non fosse esistita, non avrebbe potuto essere né predetta né immaginata.
E, mentre guardavo il Lincoln che gradualmente riusciva a stabilire un rapporto con ciò che vedeva, capii qualcosa: la base della vita non è la brama di esistere, e neppure un qualunque desiderio. E’ la paura, la paura che vedevo qui. No, neanche la paura; qualcosa di molto peggio. Terrore assoluto. Un terrore talmente paralizzante da farlo sprofondare nell’apatia. Tuttavia il Lincoln si muoveva, stava uscendo da tutto questo. Perché? Perché doveva farlo. Il movimento, l’azione erano impliciti alla dimensione del terrore. Una simile condizione, per la sua stessa natura, non era sopportabile.
L’intera attività della vita era uno sforzo teso a mitigare questa condizione. Il tentativo di alleviare quello stato che ora compariva davanti ai nostri occhi.
La nascita, decisi, non è piacevole. E’ peggio della morte; è possibile filosofare sulla morte… e probabilmente voi lo farete: tutti l’hanno fatto. Ma la nascita! Non c’è alcuna possibilità di filosofare, di addolcire la condizione. E la prognosi è terribile: tutte le vostre azioni, tutti i vostri atti e pensieri non avrebbero fatto altro che coinvolgervi costringendovi a vivere ancora più intensamente.
Il Lincoln si lamentò di nuovo. E quindi, con un rauco grugnito, borbottò alcune parole.
“Cosa?” disse Maury. “Che cosa ha detto?”
Bundy ridacchiò. “Diavolo, è la voce del nastro. Ma sta scorrendo alla rovescia!”

Le prime parole dette dalla cosa-Lincoln: pronunciate alla rovescia, a causa di un errore nei cavi.   




 *Tratti da A.LINCOLN, ANDROIDE – 1974. Andrea De Carlo Editore.
   Traduzione di Gianpaolo Cossato e Sandro Sandrelli.
   Titolo originale WE CAN BUILD YOU (A.LINCOLN SIMULACRE), 1972

sabato 21 novembre 2015

OSTAGGI E VITTIME DEL SISTEMA MONDIALE DEL TERRORE.

di sebastiano Isaia


Il Ciglione


 Papa Francesco ha detto, a proposito della mattanza parigina del 13 novembre, che «non si può non condannare un tale atto intollerabile». Condivido. Ma mi permetto di aggiungere che, dal mio personalissimo punto di vista, non si può non condannare con altrettanta forza e identica convinzione l’imperialismo francese, assai attivo in Africa (chiedere, ad esempio, ai libici e agli abitanti del Mali) e in Medio oriente (vedi Siria), il quale ha esposto, e continua ad esporre, la popolazione francese e i turisti arrivati nella capitale francese da ogni parte del mondo alla – peraltro prevedibile e prevista – ritorsione del nemico.

«Utilizzare Dio», ha continuato il Papa, «per giustificare la strada dell’odio e della violenza è una bestemmia». A questa tesi di grande impatto mediatico rispondo citando un passo di un mio post scritto l’8 gennaio 2015, ai tempi del Siamo tutti Charlie Hebdo: «Inizio questa breve riflessione sulla carneficina andata in onda ieri da Parigi con una confessione che forse stupirà più di un lettore: pensando alla strage che si è consumata nella redazione parigina del giornale satirico Charlie Hebdo una sola parola non mi è venuta in mente: religione». Disagio sociale, frustrazione, esclusione, falsa libertà, reale oppressione sociale, disillusione, impotenza, miseria esistenziale, incoscienza, invidia sociale, disperazione, disoccupazione, assenza di prospettive, ricerca di un qualche senso da dare alla propria vita, cieca voglia di riscatto, desiderio di una forte identità in un mondo iper-fluido (Bauman docet): queste e altre parole mi vengono alla mente dinanzi agli eventi francesi di ieri e di oggi. È nel mare del disagio sociale e della più cupa disperazione che nuotano i pescecani dello Stato Islamico. Non è una «cattiva e perversa» interpretazione del Corano che arma la testa, il cuore e le mani dei giovani jihadisti, come pensano in molti, ma una cattiva e perversa condizione sociale. «La religione non spiega un bel niente», scrissi quasi un anno fa: confermo.

Migliaia di giovani disillusi dagli ideali di Progresso e di Civiltà che sono stati loro venduti a prezzi stracciati sotto diverse marche e sottomarche (in guisa democratico-occidentale o “socialista”, nazionalista o progressista, ecc.), hanno trovato nell’ideologia totalitaria e sanguinaria dello Stato Islamico* e nel genere di vita che esso esalta e propugna quello che evidentemente né i soggetti politico-istituzionali (Stato, partiti, sistema formativo-educativo-culturale, ecc.) né l’organizzazione sociale nel suo complesso sono stati in grado di offrirgli.

Ed è il fallimento politico, culturale, sociale nell’accezione più ampia del concetto; è questo fallimento per così dire strategico, qui solo abbozzato, che brucia molto agli apologeti dello «stile di vita occidentale» e ai progressisti che hanno visto evaporare miseramente nell’ultimo ventennio ogni illusione di armonica integrazione sociale, razziale e culturale. Oggi tutti in Francia e in Inghilterra ammettono quel fallimento; solo la comunità turca che vive in Germania sembra ancora resistere ai richiami 
della sirena islamista.

Il Sempione

Ieri un mio conoscente mi diceva: «Questi bastardi anziché prendersela con noi poveri cristi, perché non fanno saltare in aria governi e parlamenti? Hollande dovevano ammazzare, non tutta quella gente disarmata che non c’entrava niente con i suoi sporchi giochi in Siria e in Africa». Ho tentato di spiegargli che quei «bastardi» non vogliono mica fare la rivoluzione per conto dei «poveri cristi» (ci pensate: dalla guerra per procura alla rivoluzione per procura!), ma fanno la guerra per conto di interessi economici e geopolitici di cui essi non hanno la minima contezza (i «bastardi» credono di fare gli interessi di Allah codificati dal suo Profeta preferito, per conquistarsi il giusto ed eterno riposo in compagnia di tantissime e bellissime vergini); interessi che si scontrano con gli analoghi e concorrenti interessi basati a casa nostra. 
Insomma, siamo presi fra due fuochi.

So benissimo che la mia confusa e rapsodica riflessione suona come un «inammissibile giustificazionismo» all’orecchio di qualcuno; per me si tratta invece di capire (almeno di provarci!) la realtà osservandola da una prospettiva che non ha, e che non vuole avere, nulla a che fare con gli enormi interessi (economici, geopolitici, militari) che armano gli eserciti regolari e gli eserciti irregolari, i soldati che sparano missili intelligenti e quelli che usano il proprio corpo come bomba. Se siamo coinvolti in una «Terza guerra mondiale combattuta a pezzi», come dice il Papa, allora dobbiamo capire il senso di questa guerra.

Gli eserciti delle grandi nazioni fanno la guerra in giro per il mondo per assecondare, difendere ed estendere la potenza sistemica di quelle nazioni; per conseguire gli stessi obiettivi i governi di quelle nazioni, tutte le volte che possono, finanziano la cosiddetta guerra per procura e noi, agnelli impotenti che osiamo concederci il “lusso” di qualche distrazione al bistrò o in qualche altro luogo “ricreativo”, subiamo le conseguenze di quella politica di potenza quando il fronte bellico si sposta improvvisamente dalle nostre parti. In men che non si dica, possiamo diventare concime gettato sul terreno per fertilizzare gli interessi economici e geopolitici di Potenze grandi, medie e piccole. La verità è che se noi non ci occupiamo dell’imperialismo, l’imperialismo si occupa di noi. Siamo tutti ostaggi e vittime del sistema mondiale del terrore.

Dall’Ucraina all’Afganistan, dall’Iraq alla Nigeria, passando ovviamente per il solito Libano e per il solito Israele (mi scuso se ho dimenticato qualche altra “zona calda” del pianeta, capita quando l’elenco è lungo): mezzo mondo è in stato permanente di guerra e noi europei speriamo sempre di vedere le sventure lontane, le altrui disgrazie attraverso l’asettica mediazione di un qualche schermo: che si tratti di televisione, di computer o di un altro strumento tecnologico. Però ogni tanto la disgrazia degli altri ci afferra e ci ricorda che siamo tutti: cristiani e musulmani, occidentali e orientali, bianchi e neri, ricchi e poveri sulla stessa disumana barca. Tutti siamo esposti al pericolo. Ogni orrore non solo è possibile ma è anche altamente probabile. Come disse una volta Max Horkheimer, «Sotto il dominio totalitario del male gli uomini possono mantenere solo per caso non solo la loro vita, ma anche il loro io». Si tratta allora di dare un nome a questo male, di evocarlo, non per esorcizzarlo ma per colpirlo al cuore, una volta per tutte, affinché cessi per sempre ogni forma di sfruttamento, di oppressione e di violenza. Impossibile? Credo ancora nelle favole? Può darsi. Diamoci allora realisticamente appuntamento al prossimo “effetto collaterale”.

La 336

Scrive Maurizio Molinari: «L’attacco dei terroristi a Parigi testimonia che l’Europa è un fronte della guerra che si combatte in Siria ed Iraq contro i gruppi jihadisti» (La Stampa). Questo l’avevo capito anch’io! Lo scialbo e impopolare Hollande, oggi ringalluzzito da una bella trasfusione di sciovinismo francese (Le jour de gloire est arrivé!), ha subito parlato di un atto di guerra, sebbene compiuto con deplorevoli mezzi terroristici: stiamo forse consigliando allo Stato Islamico di ucciderci nelle nostre case o al cinema, allo stadio piuttosto che al bar, mentre facciamo la spesa o viaggiamo, con qualche bel missile convenzionale, ancorché intelligente, come quelli che sparano i “nostri” aerei (o i droni) super-tecnologici? Ogni nemico dell’umanità fa la guerra (soprattutto se “asimmetrica”) con i mezzi di cui dispone e almeno dalla guerra di Spagna in poi il fronte principale da martellare con ogni arma a disposizione è quello costituito dalla popolazione civile, per indurre il nemico alla resa,
possibilmente incondizionata.

Come ho detto prima, solo quando il fronte bellico si sposta dalle nostre parti intuiamo che nel mondo qualcosa non va come noi, “uomini di pace”, aperti alla cultura e alla religione degli altri, vorremmo che andasse nell’illusione che questo basti a esorcizzare contraddizioni sociali e interessi di varia natura così potenti, da mettere in moto la micidiale macchina della guerra, quella che fa vittime in Siria, in Iraq, nel Mali, in Nigeria in Ucraina, a Parigi e altrove. Potenzialmente il fronte bellico ha le dimensioni del pianeta. L’eccezione che interrompe violentemente la routine ci permetterebbe, superato lo shock iniziale, di scoprire la radice del terrore, se solo trovassimo il coraggio, la volontà, la coscienza. Invece, finito il periodo del lutto, dell’indignazione e della solidarietà (Siamo tutti americani! Siamo tutti francesi! Io sono questo, Io sono quell’altro!), girare la testa sempre e puntualmente dall’altra parte ci è più congeniale, “effetto collaterale” dopo “effetto collaterale”, e dopo tutto bisogna pur andare avanti! Chi scrive sconta la stessa maledetta “psicologia di massa”, beninteso.

I governi ci trattano come bambini, e noi il più delle volte ci lasciamo trattare come tali, ad esempio bevendo la colossale menzogna dello scontro di Civiltà, dell’Occidente chiamato a distruggere «Un certo tipo di fascismo medievale e moderno», per dirla con John Kerry, il Segretario di Stato della prima potenza imperialista del pianeta, la stessa che per sconfiggere l’imperialismo avversario di un tempo (la deceduta Unione Sovietica) in Afganistan foraggiò in tutti i modi possibili l’organizzazione guerrigliera (allora Washington la definiva così) di Osama Bin Laden, salvo poi trovarsela come nemica e rubricarla come organizzazione terroristica quando l’ex alleato devoto ad Allah pretese di rendersi autonomo dal suo ex compagno di strada. La chiamano guerra per procura, la quale non di rado genera inattesi e rognosi “effetti collaterali”. Ogni allusione alla carneficina dell’11 Settembre 2001 è assolutamente voluto.

Il virile Vladimir Putin si è detto ovviamente d’accordo con l’antifascista John Kerry, e la stessa cosa ha fatto il macellaio di Damasco Bashar al-Assad, il quale ha invece accusato «le politiche occidentali ritenute sbagliate nei confronti della Siria, “soprattutto da parte della Francia, che ha ignorato che alcuni dei suoi alleati sostengono il terrorismo e che hanno contribuito alla situazione attuale”. In una nota diffusa dalla presidenza siriana si precisa che Assad ha ribadito l’importanza di “adottare nuove politiche e attuare misure efficaci per fermare il sostegno ai terroristi, sia a livello logistico che politico”. Il leader siriano accusa da anni l’Arabia Saudita e il Qatar di sostenere il “terrorismo” e considera “terroristi” tutti i combattenti dell’opposizione armata» (Rai News). Qui è appena il caso di ricordare che la mattanza siriana (centinaia di migliaia di morti e feriti, milioni di profughi) ha avuto inizio nel marzo del 2011, quando migliaia di persone scesero in piazza ad Aleppo e Damasco, le due città più grandi della Siria, per protestare contro il regime. Fu una delle prime manifestazioni di dissenso di massa della storia recente del Paese. Nei giorni successivi, Damasco reagì con arresti, uccisioni, sparizioni e torture, ma senza riuscire a fermare la protesta di massa, la quale in poche settimane si estese in tutta la Siria. A maggio Assad fu costretto a schierare l’esercito nelle strade per conservarsi al potere, e siccome anche questo non bastò alla bisogna, egli chiese alla Russia, suo alleato storico, di sostenerlo attivamente nell’opera di “pacificazione” del Paese. 

Il Vecchio Sempione 

Ancora ieri gli alleati della coalizione anti-Isis hanno chiesto a Putin di smetterla di bombardare le milizie dell’opposizione siriana (ossia di lasciare al suo triste destino Assad), e di focalizzarsi piuttosto sullo Stato Islamico, come fanno ad esempio i francesi e gli americani. L’aviazione francese ha intensificato gli attacchi a Raqqa, la capitale dello Stato Islamico; «Questa è una guerra che intendiamo vincere», ha dichiarato il Primo Ministro Manuel Valls. Aspettiamoci dunque altri “effetti collaterali”.
Matteo Renzi, che teme gli appetiti dei cugini francesi, continua a cantare la stessa canzone: «Non dobbiamo ripetere gli errori fatti in Libia, affidiamoci in primo luogo alla diplomazia». Il “pacifismo” del governo italiano quasi mi commuove. 
Ho detto “quasi”!

In Siria e in Iraq si combatte per la pace? Siamo seri! Si combatte e si muore per il diritto internazionale (che poi è sempre il diritto del più forte)? Fate un po’ voi! Io non ci credo. Per la Civiltà, allora? Quale, quella nata dalla Grande Rivoluzione Francese del XVIII secolo («égalité, fraternité, liberté: sosterremo sempre questi valori», ha detto venerdì scorso Obama agli amici francesi)? Come diceva quello, la prima volta come tragedia, la seconda come farsa – a uso e consumo dell’Imperialismo unitario 
(non unico), mi permetto di aggiungere.

«La democrazia sa essere dura e spietata con chi la vuole riportare indietro di secoli», ha detto Daniele Manca in un video postato sul web del Corriere della Sera. Sulla durezza/spietatezza della democrazia borghese nell’epoca del dominio totalitario del Capitale non ho mai avuto dubbi, anche perché la repressione degli anni Settanta la ricordo ancora benissimo, e non è un caso se il Premier Renzi e il Presidente Mattarella in questi luttuosi giorni hanno più volte evocato i cosiddetti anni di piombo: «Allora un’Italia che seppe unirsi sotto le insegne dell’interesse nazionale riuscì a sconfiggere il terrorismo». Si prepara anche dalle nostre parti uno Stato d’Emergenza, magari preventivo?

Sabato un musicista suonava al pianoforte Image di John Lennon davanti al martirizzato Bataclan; a un certo punto si è fermato e ha dichiarato ai giornalisti presenti: «Viviamo nello stesso mondo e non riusciamo ancora a vivere in pace. Tutto ciò è ridicolo!». Non c’è dubbio. Ma tutto ciò che ci capita è soprattutto tragico, tanto più se pensiamo che i mezzi della tecnica e della scienza già oggi sarebbero in grado di farci vivere fuori da ogni preoccupazione di carattere materiale. C’è però un piccolo problema, che ci riporta al centro dell’inferno: questo mondo è dominato da rapporti sociali sempre più disumani.

Il Vecchio Sempione

«Siamo sulle tracce degli appartenenti ai gruppi terroristici responsabili degli attacchi, non ci fermeremo, non dimenticheremo, e faremo tutto il necessario per porre fine alle loro azioni. La violenza non ci indebolirà, ma ci darà la forza per unirci e combattere insieme la tirannia e l’oscurantismo» (Anonymous). E il dominio tirannico e oscurantista del Capitale dove lo mettiamo? E l’imperialismo francese** (ma anche italiano, americano, russo, cinese…)? Evidentemente quelli di Anonymous sono troppo tecnologicamente avanzati e “al di sopra delle parti” per immischiarsi in certe battaglie di retroguardia. E il Dominyous sentitamente ringrazia!

Viadotto sul Sempione


* Un “mostro” sfuggito al controllo di chi lo ha creato e foraggiato.«Di che tipo sono i finanziamenti esterni all’IS? Da diverso tempo alcuni benefattori e cittadini comuni dei paesi arabi sunniti del Golfo Persico – tra cui Emirati Arabi Uniti, Arabia Saudita, Qatar e Kuwait – finanziano i gruppi che combattono contro il regime sciita di Bashar al Assad, alcuni dei quali estremisti e considerati “terroristi” dai paesi occidentali. I finanziamenti all’IS non provengono comunque dai governi del Golfo, ma da privati che spesso usano legislazioni piuttosto morbide per far arrivare il denaro in Siria. In generale, non stupisce più di tanto che questi paesi mantengano una certa flessibilità riguardo il finanziamento di gruppi esterni, anche se terroristi: nelle logiche della politica mediorientale degli ultimi trent’anni, i primi nemici dei paesi sunniti sono stati Iran e Siria, paesi governati da sciiti. Insomma: dove serve colpire il potere sciita – come nel caso del regime di Bashar al Assad – gli aiuti in passato sono stati concessi senza troppe prudenze, anche se non a qualsiasi costo. E l’IS in questo senso è un’eccezione, visto che tutti i paesi arabi sunniti si oppongono al progetto di creazione di un Califfato Islamico» (Il Post).«Se nel 2001 e 2003 gli Stati Uniti e la Nato intervennero militarmente in Afghanistan ed Iraq nell’ambito della guerra totale al terrorismo islamico decisa dopo gli attentati alle due Torri Gemelle, oggi non dovrebbero aver alcun dubbio nell’attaccare la Turchia che sostiene in modo inconfutabile i terroristi dell’Isis (Stato Islamico dell’Iraq e del Levante), considerando che rappresenta una minaccia ben più seria di quella di Al Qaeda» (Il Giornale).

** «L’esercito francese, il primo per spese militari in Europa, è uno dei più presenti all’estero, soprattutto nei Paesi africani francofoni, in cui dispiega circa 10.000unità, e su cui la Francia esercita un’influenza molto forte. D’altra parte, l’Africa è particolarmente rilevante perché vicina all’Europa, e le sue vicende si ripercuotono sul Vecchio Continente in termini di immigrazione, commercio e sicurezza» (Europae).

«Dietro ogni intervento militare occidentale in un paese in guerra, si nasconde generalmente la volontà di renderlo più sicuro, specialmente per quanto riguarda le risorse strategiche, come il petrolio in Libia. Anche se il sottosuolo del Mali è ancora parzialmente inesplorato, i geologi sanno che contiene dell’uranio. La compagnia mineraria canadese Rockgate ha depositato un permesso di esplorazione per un giacimento d’uranio. Il gigante francese Areva ha effettuato delle campagne di esplorazione nella regione di Saraya. Nel recente passato, Rockgate ha anche affidato uno studio di fattibilità ad una società sudafricana, DRA Group, per il suo progetto di Falséa, che racchiude oltre all’uranio, anche l’argento e il rame. Tuttavia restano delle speranze e in realtà il suolo del Mali possiede poche rare risorse. Non è tanto il Mali in sé che potrebbe risultare interessante, quanto il fatto che si trovi al confine con altri paesi importanti, in particolare la Nigeria, in cui Areva sfrutta l’uranio. Una possibile estensione del conflitto nel nord della Nigeria avrebbe un impatto grave sulla sicurezza dell’approvvigionamento energetico in Francia. La Nigeria è in effetti un paese chiaramente importante per il numero uno mondiale del nucleare Areva. L’azienda francese trae da questo paese più di un terzo della sua produzione mondiale di uranio, che gli consente di alimentare più di un terzo delle centrali nucleari di EDF» (Lettera43).

martedì 17 novembre 2015

Parigi, 13 novembre. Il sangue d'Ignazio sulla rena.






Perché scrivere di Parigi? 
Confesso che ho pudore. O forse vergogna. A che pro farlo? Non ho analisi da proporre, nemmeno a me stesso. Non ho animo per  decifrare l’evidente. Non ho parole di speranza. Di morti per terrorismo poi purtroppo il modo è pieno, anche e soprattutto fuori dalle luci della ribalta. Scrivere forse per ricacciare indietro, egoisticamente,  questo montante e profondo senso di malessere?  E’ poi giusto  cercare di alleviare la nausea?
Scrivo per me stesso. 

Tutto questo sangue  innocente di Parigi, strategicamente sacrificato  e messo “in scena”,  che si aggiunge a quello spesso tragicamente oscuro ma che viene versato sempre più copioso, ogni giorno in ogni angolo del pianeta,  per far lievitare l’odio, per perpetrare le schiavitù;  tutte queste nuove parole d’ordine di guerra “spietata” contro un nemico  polimorfo che vive, ci viene detto, con noi, e  nei califfati, questi paranoici “scontri fra civiltà”, questi uomini che si fanno esplodere, questi droni disumani che bombardano chirurgicamente e ciecamente,  questi inni nazionali,  queste fanfare liturgiche della morte,  che preludono ad altri  bombardamenti ed ad altre sofferenze, questo già visto;  e poi queste ipocrite facce falsamente addolorate, intente a dire cosa, cariche di menzogne, ipocritamente seriose, e palesemente soddisfatte della nuova "adeguata" emergenza che prelude ad altre sofferenze ed ad altre emergenze,  per cancellare diritti,  per devastare vite; questo disgustoso spettacolo, questo macello che  continuamente si inscena per rimettere in ordine la contabilità, far quadrare i conti e schiacciare i popoli, per stabilire confini, appropriarsi delle risorse umane e non, edificare muri, indossare corazze e oliare la macchina bellica, mi lasciano senza fiato. 

Un  tuffo reiterato nell'orrore. Uno spettacolo devastante a cui ho già avuto il dispiacere di assistere nei passati decenni,  e che continua ancora,  a dispetto di passate ed evidentemente vane speranze. In pochi hanno capito e ci hanno detto, a volte a costo della vita, ciò che stava accadendo:  ma non è bastato. Non sono bastate le analisi scientifiche profonde né le dure lotte sociali e neanche il sogno dei poeti per evitare l'odierno scempio. Un oscuro futuro ci attende.

 Per usare le tragiche parole di Aldo Moro dalla prigione del popolo, lì dove si inaugurava e si sperimentava, forse per la prima volta la prassi dello spettacolo terroristico contemporaneo: siamo “sotto un dominio pieno e incontrollato”. Loro hanno le armi del terrore,  della menzogna e
dell' impostura. Noi solo la nostra umanità e la  nostra "penultima verità"

 Dovremo vedere “il sangue d' Ignazio sulla rena” ?




domenica 15 novembre 2015

Tecnologia e limiti terrestri

Da  Sulla soglia del mondo -
      L’altrove dell’Occidente di Iain Chambers (2003) * 



Nell’odierno distacco metropolitano del mondo del lavoro dal senso del luogo, la vita civica si svincola sempre più dalla presenza immediata e dalle pressioni della produzione organizzata, e il lavoro viene ristrutturato in altri corpi (solitamente femminili, non di razza bianca e non del “Primo” mondo) e poi disperso spazialmente nella specificità frammentata del servizio metropolitano e delle industrie del piacere, oppure trasferito in luoghi remoti della produzione trans-nazionale, nelle piantagioni di caffè dell’America Latina, nelle fabbriche tessili dell’Indonesia, nelle catene di montaggio di microchip a Singapore. In quest’economia, Napoli e Irvine sono effettivamente più vicine di quanto potrebbe inizialmente sembrare a una prima occhiata. Entrambe esistono sullo stesso piano, forniscono soluzioni storicamente diverse in un’ontologia occidentale condivisa in cui l’architettura dell’accumulo sedentario, pianificato è
 sia costante che centrale.


Entrambe sono città per cui l’imperialismo europeo ieri e il neocolonialismo oggi sono stati centri focali dello sviluppo. La città contemporanea, che sia un insediamento storico sedimentato come Napoli o un modulo flessibile e orizzontale come Irvine, continua a schiudere e contemporaneamente a offuscare queste coordinate mentre vengono concentrate nel suo linguaggio, nei suoi edifici, nella sua prassi e nel suo stile quotidiani, nella sua sicura occupazione dello spazio.

Se per Le Corbusier le case sono macchine in cui vivere, Heidegger  ci ricorda che “la tecnica meccanica è il primo frutto dell’essenza della tecnica moderna, che fa tutt’uno con l’essenza della metafisica moderna”. Come schema, progetto e desiderio strumentale, l’architettura opera una mediazione tra la trasmissione dell’intenzione e la realizzazione e l’utilità, nonché la finalità culturale e l’iscrizione storica. In quanto tale, si ritrova intrappolata nella pulsione di ridurre la contingenza terrestre alla logica causale e controllabile di un linguaggio trasparente in cui il “politico” e il “sociale” vengono assorbiti pienamente in un regime mondano del razionalismo, che oggi si traduce sempre più nella neutralità, in apparenza leggera, dell’“informazione”.



Ci sono però dei limiti che circoscrivono le proiezioni di questi futuri, tanto quello della trascendenza promessa dalla tecnologia che la sospensione relativa dell’educazione civica urbana e del conseguente ottundimento della scelta politica. Mentre la California meridionale fa parte dei nostri futuri, non è necessariamente il futuro, perché, e qui riecheggiano Martin Heidegger e Richard Sennett, il luogo non è semplicemente il prodotto dell’elaborazione globale. Nel suo celebre saggio chiamato Costruire, Abitare, Pensare (1954), il filosofo tedesco scrive: gli spazi ricevono la loro essenza non dallo spazio, ma dai luoghi” (p. 103). Lo spazio è una produzione sociale, ci ricorda Henri Lefebvre, avrà sempre una storia: “Nessuno spazio scompare in fase di crescita e di sviluppo: il mondiale non abolisce il locale” 

Il luogo è sempre il sito di appropriazione culturale e trasformazione storica, il sito di una maniera e di un’economia specifiche di costruire, abitare e pensare. Per quanto sia l’oggetto di uno schema astratto, che si avvale della sintassi del capitalismo, della tecnologia, del governo, della pianificazione e dell’architettura, ciò che emerge non è mai semplicemente l’oggetto alienato di questi processi: ciò che emerge è un soggetto che introduce l’agonismo nell’agorà, costruendo un luogo particolare fuori da questo spazio, confutando la regolata trasparenza del piano per mezzo dell’inattesa opacità dell’evento insubordinato (Sennett, 1995).

Ciò significa insistere sulla disposizione profondamente eteronomica della modernità, di ciò che rimane represso nelle strozzature della coerenza razionalista e nazionalista. Significa disfare i legami di linearità e la teleologia di un tempo chiamato “progresso”. Significa gingillarsi mentre si palesa l’inquietante presenza di ciò che la modernità reprime, pur effettivamente dipendendo da essa: lo sfruttamento di chi è stato dimenticato, privato della libertà, dell’alieno e del negato. Questi ultimi sono condannati a sobbarcarsi il fardello della modernità in nome del progresso, del sottosviluppo, dell’arretratezza, dell’illegalità e dell’inevitabile attivazione dei paradigmi della privazione economica, del pregiudizio sessuale, della discriminazione etnica e del razzismo che tendono a imporsi in uno scenario di questo tipo.

Iscrivere direttamente queste discontinuità nel racconto contemporaneo del tempo, nello stato patrimoniale della modernità, investe altresì la tematica dell’architettura. L’architettura, nella maniera in cui è stata istituzionalizzata, praticata e insegnata, incarna la scommessa razionalista (sia in ambito empirico che idealista) che la conoscenza sia rappresentazione, che la conoscenza riguardi la capacità di vedere per rappresentare il mondo in una logica e in una struttura misurabili e immediatamente accessibili.



 L’architetto modello è Iddio onnisciente che tutto vede e tutto comprende, come prescrisse Isaac Newton e dipinse William Blake. Alla palese configurazione dell’architettura nelle economie emergenti dell’urbanesimo, del colonialismo e del capitalismo occorre pertanto aggiungere la sua appartenenza alle modalità egemoni della conoscenza e del potere. In questa formazione moderna, occidentale, l’architettura è sorella dell’antropologia, dell’anatomia e dell’arte abietta, ossia
“l’arte del dissotterratore dei cadaveri”  (1).

Queste relazioni foucaltiane, legate alle possibilità panottiche di disciplinare, se non anche di “disegnare e ripartire” il corpo della città, il corpo del cittadino, tentano di ridurre tutti i movimenti e le rotture potenziali alla cornice classificatoria e al tavolo dell’autopsia di una “natura morta”. Tuttavia il corpo, in quanto carne, sangue e ossa, in quanto storia e fecondità individuali, è il “dire”, come ribadisce Emmanuel Lévinas, che precede e va al di là della coscienza, del sistema, della struttura e della rappresentazione.

Nell’incarnazione del soggetto è l’alterità radicale del corpo stesso, relativamente al desiderio e allo schema atemporale del pensiero, che rende quest’ultimo vulnerabile ai limiti e alla ricusazione, perché “mette perennemente in discussione la prerogativa della coscienza di ‘fornire un senso’”
(Handelman, 1991).

L’architettura moderna, occidentale, ha dato un contributo diretto alla diffusione di un’egemonia visiva che non solo nega altre forme non rappresentative della conoscenza, ma ottiene, anche nella sua trionfale razionalizzazione del punto di vista unilaterale e della prospettiva astratta, di far passare nel dimenticatoio ciò che il suo discorso prevede di spiegare e accogliere: corpi e vite diverse. L’occhio architettonico si concentra sulle tecniche e sulla tecnologia dell’inquadramento che rende lo spazio e il terreno una realtà vantaggiosa, configurandola nell’identità dell’inquadratore, del soggetto. Lo sguardo apparentemente obiettivo viene restituito e trasformato nel punto di vista interno, soggettivo. Ancora una volta, diviene possibile afferrare l’apparentemente paradossale affermazione che la tecnologia è l’umanesimo.

La presunta antitesi tra questi due termini, che struttura in profondità tanta parte del pensiero moderno relativo alla tecnologia, prevede effettivamente una collaborazione tra due corpi concettuali in apparenza contrapposti e separati, catturati in un balletto i cui passi espongono le asserzioni universali del pensiero occidentale. Quando si tratta un punto di vista come ugualmente valido in qualunque posizione, di modo che ogni cosa dia il medesimo risultato, e venga meno il disturbo dell’alterità, allora la coscienza soggettiva passa direttamente nell’oggettività “neutrale” 
della forma calcolata.

Non ci vuole una grande immaginazione per mettere in relazione questi segni relativi al potere dell’aspetto, nonché il suo ruolo di custode della conoscenza, con il potere del piano e del punto di vista architettonico. Lo sguardo architettonico è altresì lo sguardo antropologico: costruire, classificare e definire lo spazio per gli altri; spalleggiato ulteriormente nella pragmatica delle culture anglosassoni dal pregiudizio che il linguaggio stesso sia cristallino, un semplice strumento per mezzo del quale la ragione riflette la realtà nella strumentalità neutrale del mezzo. Come l’occhio nudo, le lenti della macchina fotografica o la simulazione al computer, questi esempi di potere visivo traducono la verità direttamente in regimi di rappresentazione, da cui deriva la presunta vicinanza dell’osservatore a Dio, dell’architetto secolare al progettista divino.

 Ciò che non riesce a rientrare nel campo ottico, le sue procedure di classificazione e la sua logica della rappresentazione, non riesce nemmeno a divenire conoscenza. Qui lo spazio continua a essere concepito come realtà antropomorfica i cui limiti (l’orizzonte, il limite del campo visivo, l’oscurità) vengono riconosciuti unicamente per essere resi insignificanti relativamente a ciò che rientra nel campo di una visione ingrandita.

La relativa stabilità di questa cornice e dell’inquadramento o rappresentazione del soggetto (“l’immagine del mondo”, come dice Heidegger, che fa sì che l’occhìo sia sempre al centro della visione e del mondo, come stabilito per la prima volta con la modernità) consente di rigettare un punto di fuga o il vuoto che, alla fine, farebbe slittare e sopraffarebbe la soggettività. Come afferma Victor Burgin (1990): il punto di fuga non è parte integrante dello spazio della rappresentazione; posizionato sull’orizzonte, viene continuamente spinto in avanti di pari passo con l’espansione dei limiti del soggetto.

Il linguaggio della trasparenza e l’egemonia oculare qui si fondono in una relazione di soggetto-oggetto, in una concezione cumulativa del significato e della verità che riafferma eternamente il soggetto. Si tratta di una concezione che valorizza lungo un movimento unilaterale: dall’occhìo verso il mondo, di cui ci si appropria in quanto oggetto esterno.


Ora vorrei affiancare a questa generalizzazione epocale e geopolitica un’affermazione più precisa che riguarda direttamente il campo dell’architettura. Si tratta di una citazione da Urbanistica (pubblicato per la prima volta nel 1925), di Le Corbusier (1929), che recita: Combattiamo la trascuratezza, il disordine, l’abbandono, la negligenza dalle fatali conseguenze; aspiriamo all’ordine e lo raggiungiamo con il richiamo al nostro principio fondamentale: la geometria. “La geometria è il nostro principio fondamentale”, ci dice l’architetto francese proprio in apertura del suo libro. Ma al di là della frustrazione costante della geometria a opera delle coordinate storico-politiche, per non citare le pressioni dirette del mercato e della commercializzazione spesso scoordinata degli immobili, c’è una tensione maggiore dove i progetti rimangono permanentemente intrappolati nel passaggio tra costruzione e abitazione, tra la risposta funzionale all’abitazione umana e la proiezione immaginaria della stessa. Questo perché il potere dello sguardo si accompagna altresì a un’intrinseca incapacità:
l’incapacità di ascoltare, udire e rispondere.

L’occhio osserva una forma di sapere che né attende né accetta una risposta. Il piano progettato e contemplato dalle tecnologie dell’appropriazione oculare e dalla loro gestione della conoscenza, del potere, può essere lacerato, perforato o semplicemente superato da ulteriori regimi del senso individuale e collettivo che, inaspettatamente, confutano le prospettive amministrative.

L’esito della battaglia per avere un terreno comune di significato, o un quadro condiviso di senso, è insolitamente inevitabile; la sua politica penetra fin proprio nel cuore della materia a portata di mano, nel cuore stesso del nostro essere nella città, nella vita moderna. Inoltre, è possibile che venga restituito lo sguardo per far sentire a disagio l’osservatore, o per rendere tendenziosa la sua verità.



L’osservatore viene osservato. Registrare la possibilità di una simile reciprocità significa introdurre una distinzione dirompente tra l’oggettività soggettiva di una visione che abbraccia tutto e un occhìo che reagisce, che incontra resistenza e opacità, disturbo e offuscamento, un riflesso fosco nella retina. Questo opera un sabotaggio della distanza critica tra il soggetto che tutto vede e l’oggetto inerte, la distanza che permette il possesso, con un’interruzione che rimane insuperabile, una separazione instaurata e mantenuta dalla finitezza della mortalità, dai limiti della posizione, dai
fastidi dell’inconscio e dalle circostanze della differenza: voci diverse, corpi diversi, 
storie diverse.

È questo passaggio non rappresentabile che forma la materialità che Platone chiama chora, che Derrida e altri considerano il luogo eterno e infinito della traduzione, e che Elizabeth Grosz (1995) significativamente identifica come lo spazio del femminile. Proprio qui lo schema avviluppante dell’architettura incontra la presenza inquietante del non rappresentato. È qui che la purezza del progetto viene frantumata dall’apertura ai mutevoli linguaggi del luogo.

Pertanto, l’archeologia della moderna architettura non  svela semplicemente il suo contratto con una particolare épisteme, bensì stabilisce anche, e più appropriatamente,  limiti storici e  soglie culturali. Abitare nei limiti tra l’architettura e ciò che va al di là di essa, nell’eccesso, nell’integrazione, che rifiuta la sua logica o la contravviene, significa anche incontrare le altre architetture, o controarchitetture, che ne disturbano le prescrizioni e scelgono di vivere progetti, edifici, città, secondo pratiche ulteriori, impreviste.






Sull’orlo della costruzione

A queste necessità si deve aggiungere l’irrefrenabile costanza di un interrogativo di cui l’architettura pare sempre immemore. Non troppo tempo fa, in una Lettera a Peter Eisenman, Jacques Derrida (1994) ha elencato una serie di relazioni che, in stile heideggeriano, espongono l’architettura alla provocazione del suo inquadramento terrestre, a ciò che va al di là del suo discorso e lo avviluppa: l’architettura e la povertà, l’architettura e la condizione dei senza tetto, l’architettura e le rovine, e questo ci riporta al punto di partenza dell’interrogativo: la questione della terra e la provocazione fondamentale sostenuta dal nostro abitare.

Le pietre, l’acciaio, il cemento e il vetro che in apparenza forniscono la conclusione di un discorso, di un progetto, di un piano, di un edificio, di una città, sono necessari, ma non sufficienti, punti materiali di partenza nei processi che trasformano lo spazio in un luogo, perché ogni spazio incarna pratiche storiche e culturali, riceve il sigillo individuale e collettivo di corpi, storie, culture, ricordi e vite irreprimibili. L’architettura come “sintesi spaziale dell’eterogeneo” non è quindi solo la sintesi di forme e materiali, come propone Paul Ricoeur (1996): è anche sintesi di forze e relazioni sociali, storiche e culturali. In quanto testo non è soltanto una trama da leggere, è anche una storia che raccontiamo e in cui veniamo raccontati. In questo modo si conferiscono alle discipline e alle pratiche che concepiscono e progettano la città (l’architettura, l’urbanistica e l’amministrazione comunale, l’investimento e la speculazione finanziari, l’oligarchia del capitale globale e locale) una ricezione e un ascolto che consentono alle altre città che esistono all’interno della città di divenire visibili e udibili: gli edifici di classe, genere, sesso, etnia e razza che costituiscono e investono lo spazio urbano.

Tracciare la mappa della città seguendo questi assi significa integrare, e talvolta sovvertire, la concezione di un habitat inteso esclusivamente in termini di popolazione astratta, spazio civico generico, insieme di forza lavoro anonima o concentrazione commerciale. Comprendendo la città in quest’ottica si attua un radicale spostamento dell’enfasi dai protocolli prescrittivi del piano urbano, del progetto architettonico, dell’intenzione amministrativa e della strategia economica verso quelli iscrittivi: verso la città che parla, che si racconta nella diversità. Se a questo punto si presta attenzione a Lévinas, nel passaggio dall’interdizione del detto all’esposizione del dire, nell’oscillazione tra l’astrazione della legge e l’evento non previsto, esiste l’insistenza dell’etica, dove il prescrittivo viene reso responsabile. [...]

Il progetto architettonico, mentre cristallizza uno o più futuri, viene poi presentato alla città, per così dire, come un intero, non come una sostituzione o un rimpiazzo, come nell’urbanesimo utopico del modernismo, bensì come materiale da sottomettere alla vita e al potere consumante del contesto. I “tipi” apparentemente onnicomprensivi vengono pertanto frantumati dalla controforza del luogo (Vidler) (2). 
Le città, la vita urbana, l’architettura, come le nostre essenze sociali, di genere, etniche, nazionali e locali, per quanto possano essere costruite per decreto pedagogico e disciplinare, in ultima analisi dipendono da una performance o stile d’essere, dall’articolazione storica e da un’etica iterata nel nostro divenire. La verità del nostro essere è qui, nel fatto che ascoltiamo e rispondiamo a quel linguaggio. In quello spazio, per quanto eccessivamente determinato dall’assalto apparentemente irresistibile di capitale e controllo corporativo (che in questi anni si sostituisce sempre più alle politiche istituzionali), esiste un eccesso culturale e poetico che non si può ricondurre al razionalismo e alla logica calcolatrici di coloro che intendono sovrintendere
 al nostro futuro.

Questa integrazione interrompe e mette in discussione il desiderio politico della conclusione, della comprensione universale e l’asservimento razionalista del mondo. Questo desiderio si disperde nello spazio tra gli edifici, nel vuoto tra proclami misurati, nel silenzio che la geometria non riesce a codificare, nelle ombre che offuscano la trasparenza. Infine le energie si riversano per le strade e per
i territori dell’incertezza dove i corpi e le voci storici, muovendosi in uno stato mutevole, ora “arcaico” e ora “cyborg”, coniugano la tecnologia e l’essenza in un interrogativo comune. Qui la chiarezza accattivante e il potere dell’informazione sono traditi nel perenne transito e nella traduzione che accompagna un adattamento differenziato nel mondo. Qui c’è la possibilità di varcare i confini del calcolo per correre il rischio di pensare diversamente. Pensare a ciò che il calcolo non può rappresentare, ciò che i numeri e le linee reprimono, significa esporre il piano ai rischi incalcolabili che nasconde, nonché al terreno mobile, la terra, che immancabilmente trascura.

L’architettura, in quanto tentativo di configurare lo spazio, di trasformarlo in luogo, edificio, habitat, deve sempre fare i conti con l’instabilità, l’eruzione narrativa, dell’essenza storica quotidiana e di una finitezza costellata dalla contingenza terrestre. La cognizione di queste coordinate scaturisce forse nella prospettiva di un’architettura più transitoria o di un’“architettura debole”: un’architettura in grado di adeguare, o quantomeno registrare, l’intervallo tra piano e luogo. Non si vuole suggerire di costruire strutture meno sicure, bensì che la loro necessaria logica e razionalità vengano a essere riconosciute come linguaggi limitati invece che leggi universali.

Chiaramente, questo vorrebbe dire ridurre e ridisegnare il campo d’azione dell’architettura spostando l’attenzione alla tendenza di una razionalità omogenea e insistendo sulle storie eterogenee che la costruzione è destinata a ospitare. L’architetto smette di essere un progettista universale e assume i connotati di costruttore attento, che edifica l’abitazione umana, se ne prende cura e la nutre (3). Il piano, il progetto, l’edificio diviene una costruzione più leggera: meno monumentale, meno metafisica nelle sue aspirazioni, più modesta, aperta e disponibile nella sua risposta al luogo in cui è destinata ad acquisire vite, storie… ricordi, significati.

Un’architettura di questo tipo diventerebbe forse più vulnerabile a un senso dell’abitare ricevuto dall’eredità storica e dalle contingenze terrestri che noi chiamiamo mondo (Heidegger). In questo modo, l’architettura si metterebbe anche in comunicazione con le dimore più semplici che rappresentano l’abitazione e il rifugio per la stragrande maggioranza della popolazione mondiale che non dispone né dell’economia, né della stabilità quotidiana per permettersi la qualità architettonica degli edifici occidentali. Questo potrebbe proporre un ponte tra le opzioni individuali circoscritte dalla responsabilità teorica (e dai costi) di edifici domestici come quelli proposti, per esempio, dall’architetto australiano contemporaneo Glenn Murcutt, e le soluzioni standardizzate che prestano attenzione alla storia del luogo.

Tra le opere di Murcutt si distingue la famosa casa Marika-Alderton (1991-1994) nella comunità di Yirrkala nei Territori Settentrionali: una reinterpretazione dello stile aborigeno del rifugio proposta come alternativa al bungalow governativo standard .

Qui, per quanto si stia sempre parlando di una soluzione su misura, non collettiva, non si esclude la possibilità che quest’ultima venga a essere eticamente ed effettivamente influenzata dalla prima. A questo punto, sarebbe possibile chiedersi se gli architetti siano le vittime o gli esecutori del capitale globale e dei suoi teatri locali del potere. I commenti di cui sopra sulla locuzione storica e sui limiti della volontà architettonica occidentale (ora trasposta negli skyline di tutto il mondo, da Siviglia a Sydney a Shanghai) vogliono proporre per gli architetti il ruolo di mediatori, che esercitano il loro potere di riflettere e di deflettere le relazioni strutturali in cui loro, 
le loro pratiche e noi veniamo catturati.


 L’architettura, come ambito dell’opera critica, non è soltanto il luogo in cui si visualizzano e progettano edifici e città, ma è anche il luogo dove diviene possibile ascoltare ciò che i protocolli della professione tendono a passare sotto silenzio o a reprimere nella sua economia politica di razionalizzazione dello spazio.
L’architettura si sviluppa necessariamente a partire da un punto di vista che, a prescindere dal grado di liberalità e pluralismo delle sue intenzioni, è destinato ad attrarre tutto ciò che incontra nella logica del suo piano. Non solo è unilaterale nella sua astrazione (come si traccia o progetta il contingente e il trasgressivo?), ma richiede altresì una chiusa arbitraria, un’omogeneizzazione della visione, se deve passare da un tavolo da disegno al luogo della costruzione, 
all’edificio abitato e all’edificazione dello spazio.

È vero che, nella città di tutti i giorni, nella mobilità della vita quotidiana, le cose non vanno tanto lisce: i detriti lasciati dalle altre storie e dalle altre maniere di abitare lo spazio urbano possono lasciare il loro segno sui muri, i loro ripari di cartone nel parco, le loro ombre distese sui marciapiedi, o concentrare altrove la differenza – dal linguaggio e dalla religione alla musica, alla cucina e all’abbigliamento – 
in particolari enclavi del reticolo urbano.

 In che modo risponde l’architettura? E soprattutto, può l’architettura rispondere affatto? Oppure tra coloro che non rientrano nel piano, la cui presenza ne infastidisce e sfida la logica, è già innestata un’altra architettura? Certamente emerge di frequente una maniera di abitare che intorbida la logica imposta, che riscrive i termini dell’ospitalità secondo un altro design culturale.



*Il libro di Iain Chambers "Sulla Soglia del Mondo - L'altrove dell'Occidente" pubblicato da Meltempi editore nel 2003 è disponibile in formato pdf qui.

Note
1 Non che la volontà di rappresentare sia automaticamente compresa o abbia effetti omogenei. L’azione dell’architettura (chi viene rappresentato, che cosa viene rappresentato) chiaramente costituisce anch’essa il suolo contestato su cui opera l’architettura. Queste argomentazioni sono tratte da Gülsüm Bantoglu e dal suo intervento alla conferenza Global/Local: Postcolonial Questions, University of Western Sydney, 24 giugno1997.
2 Qui Vidler descrive l’architettura sperimentale di Wiel Arets.
3 “L’uomo non è il padrone dell’ente. L’uomo è il pastore dell’essere” (Heidegger)