uno dei due è l'altro

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domenica 14 agosto 2016

Miles Davis. Lo sciamano elettrico




Questo post nasce da uno stringente "suggerimento" del caro Remigio, "L'immobilista molisano". Il quale, dall'alto della propria imperturbabile immobilità (1421 metri) , durante il nostro ultimo e troppo breve  incontro, ha  espresso un' insindacabile opinione: dopo i post qui pubblicati su The Cycle is Complete e The end of the Game, era necessario pubblicarne uno  sul controverso On the Corner.

Ciò, naturalmente, per completare un trittico divino, organico ad un divino disegno, o piano che dir si voglia, a me sconosciuto e, credo, oscuro ai più. 

Dal basso Molise, dove provvisoriamente mi trovo, eseguo, sperando di esaudire il desiderio di Remigio ed eventualmente quello divino. Che forse, inaspettatamente, coincidono: On the Corner!

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Miles Davis
Lo sciamano elettrico
di Gianfranco Salvatore*



L’Africa a Darmstadt

la musica ed il percorso creativo del trombettista negli anni che vanno dal 1967 al 1980 sono un periodo poco amato dalla critica e dagli storici ‘ufficiali’ che lo hanno sempre visto come una degenerazione commerciale della poetica davisiana. Negli anni che sono passati però le cose sono un po’ cambiate, ed in meglio.  Infatti, sono caduti molti dei luoghi comuni sulla musica di Miles di quel periodo e molti sono oggi i musicisti influenzati dal suo approccio e dalle intuizioni maturate in quegli anni.


Red China Blues, registrato il 9 marzo 1972, è un sintomo evidente dell’indecisione in cui si trovava Miles Davis subito prima di lanciarsi nella nuova avventura di ON THE CORNER, dopo quasi due anni di assenza dagli studi di registrazione. La cosa scaturì dall’estemporanea infatuazione per un ennesimo chitarrista, Cornell Dupree, che aveva fatto parte della storica sezione ritmica dell’etichetta Atlantic col batterista Bernard “Pretty” Purdie: assieme avevano formato un supergruppo funky, gli Stuff, a cui Davis si era entusiasmato ascoltandolo al Mikell’s. Red China Blues non c’entra nulla con il canone davisiano. È solo un convenzionale rock-blues eseguito da una formazione che mischiava Michael Henderson, Al Foster e Mtume a un gruppo di musicisti della Motown, con l’armonica a bocca di Wally Chambers e la classica sezione di fiati (arrangiata da Wade Marcus) a sputare riff secondo copione. Miles non partecipò né ai preparativi, né alla registrazione della base, ma si limitò a sovrapporvi a fine maggio la tromba: la quale, filtrata dall’ormai immancabile wah-wah, sempre piú “parlante” e umanizzata, appare in totale disaccordo col contesto. Davanti a tanta confusione, non si sa come interpretare l’episodio, se come un gesto arrogante o un grido d’aiuto.


Forse Red China Blues è solo l’ultima – e piú perfetta – proiezione dei suoi desideri nascosti: quella di “cantare” funky, di sparare note come faceva James Brown con sillabe e fonemi, di farsi amare da quel pubblico. forse davvero, come accennò a qualcuno, era solo una cosetta irrilevante, fatta per fare un piacere a un amico.

Alla sovrincisione della tromba assistette Paul Buckmaster, un giovane violoncellista inglese di grande cultura musicale, con una vasta competenza nelle avanguardie del Novecento, nella musica indiana, nel rock e nel jazz, che si sarebbe affermato come compositore in proprio, arrangiatore pop (per Elton John e poi per molte altre star) e produttore di gruppi sperimentali come la Third Ear Band. Davis l’aveva conosciuto il 10 novembre ’69 a Londra, dove fu colpito dall’ascolto di una sua registrazione, consistente in un ritmo fisso di batteria e una figura di basso che si trasformava nel corso del pezzo. Si trattava di quel genere di scrittura modulare verso cui egli stesso si stava orientando.


Buckmaster si trovava a New York per invito di Miles, che doveva decidersi a preparare un nuovo disco ma non aveva le idee chiare. Ospitò l’inglese a casa sua per sei settimane, tra fine maggio e i primi di luglio, per usarlo come collaboratore e consulente. Le esercitazioni mattutine di Buckmaster sulle suites per violoncello di Bach lo entusiasmarono, e si appassionò all’idea di un contrappunto a tre e a quattro voci indipendenti. Ma soprattutto lo folgorò la scoperta di Stockhausen. Buckmaster gli aveva portato un disco che conteneva Telemusik e Mixtur, e Miles lo ascoltò tutto il giorno a tutto volume, invogliato a procurarsi anche altre opere del compositore tedesco. Ma specialmente Telemusik fu una rivelazione, con le sue sovrincisioni leggermente sfasate e le registrazioni di musiche etniche elettronicamente trattate. Si rese conto che gli effetti usati da Stockhausen – modulatori ad anello, filtri, variatori di velocità e modulatori di ampiezza – erano gli stessi adoperati anche da lui e Macero, e cosí le tecniche di sovrincisione. Colpito da certe affinità di tipo metodologico con il suo modo di concepire la musica, si lasciò profondamente ispirare da quelle opere nate da esperienze cosí diverse dalle sue: la scuola di Darmstadt, le avanguardie elettroniche europee. 


Sotto questo genere di influenze diede istruzioni a Buckmaster di preparare per il nuovo disco alcuni elementi modulari: e il musicista inglese scrisse un vamp di basso, uno per la batteria, altre due figure ritmiche per le tablas e le congas, e alcuni schemi per le tastiere. Non elaborò (o non presentò) vere e proprie melodie, preso in contropiede dall’improvvisa convocazione della seduta di registrazione, dal repentino segnale d’inizio dato da Miles in studio, e dal fatto che i musicisti si distaccassero liberamente dalle indicazioni da lui fornite anche a voce. Buckmaster, un ottimista, interpretò queste deviazioni dal programma assegnatogli nel senso “stockhauseniano” della trasformazione continua di elementi in un processo, e lasciò correre, sopportando senza protestare anche il fatto che la sua collaborazione non venisse accreditata nel disco. Peraltro, nel corso delle registrazioni, la direzione fu totalmente di Miles.



Nacque cosí ON THE CORNER, destinato a diventare l’album davisiano piú controverso in assoluto. La prima facciata conteneva cinque titoli, coi loro tempi regolarmente segnati sull’etichetta del disco, ma i primi quattro, perfettamente omogenei, risultavano uniti senza soluzione di continuità e senza solchi di separazione tra l’uno e l’altro. Indivisi apparivano pure il secondo e il terzo brano della seconda facciata. Anche a vista, insomma, era evidente come la messa a punto dell’album rispettasse l’idea di “flusso” su cui ora Miles stava lavorando, a estensione e perfezionamento della sua concezione ciclica della temporalità musicale. L’unica ragione per cui i brani a cavallo delle due facciate, Black Satin e One And One, risultavano separabili dagli altri era forse la speranza che potessero essere inseriti nella programmazione radiofonica.



Da Miles c’era da aspettarsi simili paradossi. Si trattava del progetto musicale piú sofisticato tra quelli messi a punto nel suo primo periodo elettrico, e causò enorme scandalo presso l’ortodossia del pubblico e della critica jazz: eppure Davis confidava in un suo vasto consenso, immaginandosi un vero e proprio successo commerciale. Ne è sintomo il vistoso cambio di stile della copertina, dove all’onirismo africaneggiante di Mati Klarwein si era sostituito un coloritissimo ambiente metropolitano (disegnato dal cartoonist Corky McCoy) popolato di hipsters neri vestiti in maniera chiassosa, con pantaloni svasati o a saltafosso, in atteggiamenti tra il giocoso, il militante e il delinquenziale.




Davis fece pressioni sulla casa discografica perché gli uffici promozionali spingessero l’album in maniera diversa che in passato, restando deluso che la Columbia lo pubblicizzasse come un normale disco di jazz, anziché come una musica concepita per il pubblico giovane di colore, da spingere nelle radio che trasmettevano rhythm&blues e rock.

Sintomatica contraddizione, che mostra come ancora una volta egli cercasse una commercialità sui generis, mirata in senso razziale e generazionale, ma senza la minima intenzione di imitare la musica di qualcun altro. In certi suoi modelli come Sly Stone o James Brown non vedeva soltanto una strategia di mercato, ma delle idee di forma che egli stressava in modo radicale: raggiungendo esiti artistici di portata storica, ma con l’inevitabile risultato di alienarsi il mercato jazzistico senza affermarsi su quello del rhythm&blues.



In effetti la musica che si ascolta nel disco, tirata fino alle estreme conseguenze su un unico accordo grazie a un fitto intreccio di ostinati ed obbligati, appare come un inestricabile sistema modulare, omogeneo nella sua condotta dinamica priva di climax e picchi di tensione, ma di una complessità metrica estrema e sconosciuta al pensiero musicale occidentale. Nella musica europea solo Messiaen e Stockhausen avevano osato affrontare sistematicamente un obiettivo del genere, anche se Davis, paradossalmente, lo identificava a suo modo col rhythm&blues, un po’ come Conlon Nancarrow usava proiettare le sue ricerche metrico-ritmiche nel ragtime.


Davis ha raccontato che, nell’allestire ON THE CORNER, aveva in mente James Brown e i Last Poets, il gruppo di rappers ante litteram conosciuti attraverso il produttore Alan Douglas. Ma soprattutto aveva consumato le sue copie di DANCE TO THE MUSIC e STAND!, due dischi di Sly & The Family Stone usciti tra il ’68 e il ’69. Anche Hancock era stato affascinato da quel «modo di disporre strati ritmici uno sull’altro», dove «il ritmo era nello stesso tempo verticale e orizzontale, gli arrangiamenti ingegnosi». E Miles aveva colto nella musica di Sly la tendenza a costruire i brani su vamps bassistici, spesso ruotanti attorno ad un unico accordo. Inoltre, riascoltando STAND!, forse prese dal lungo brano Sex Machine quello spunto formale – il gioco di incastri tra le varie figure in ostinato scambiate tra basso, chitarra e armonica a bocca, e la periodicità ritmica degli accordi chitarristici – che avrebbe direttamente influenzato la struttura delle performances di ON THE CORNER.

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* Stampa Alternativa
(stralcio del capitolo 9, dedicato alle session del 1972 che porteranno all’album On The Corner)


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