Dalla prima parte del notevole libro di Piero Pagliani "Al Cuore della Terra e Ritorno", comincio col postare due interessanti capitoli.Per ragioni di spazio, mi vedo costretto ad eliminare le pur struggenti e illuminanti note dell'autore. Per cui, a maggior ragione, invito a leggere il pdf originale. Qui
Viaggio
verso il cuore della Terra:
il
“nuovo secolo americano”
1. L’invasione
dell’Iraq, così come quella della Libia, non è stata una semplice
guerra per il petrolio, cioè di
pura spoliazione coloniale. Nelle tesi del noto, o meglio notorious, think-tank
“Project for a New American Century” (o Pnac) i teorici neoconservatori
consiglieri di Bush Jr spiattellavano tutto senza molte reticenze.
Il Medio Oriente e l’Asia
Centrale erano tappe obbligate per fronteggiare il prossimo competitor strategico: la
Cina.
Quei rapporti erano così
limpidamente spudorati che in “Rebuilding America’s Defenses”, Pnac Report,
September 2000, si poteva leggere tranquillamente che la consigliata strategia di
riposizionamento strategico in Asia non sarebbe mai stata adottata in tempi utili
«in assenza di qualche evento catastrofico e catalizzatore – come
una nuova Pearl Harbor».
Dopo l’11/9 su impulso del Segretario alla Difesa, Donald Rumsfeld, fu messa a punto una tabella di marcia, rivelata nel 2007 dal generale Wesley Clark, che prevedeva la conquista in cinque anni di Iraq, Siria, Libano, Libia, Somalia, Sudan e per finire l’Iran. Lo scopo era chiarissimo fin da dieci anni prima delle Torri Gemelle. E’ sempre il generale Clark che racconta:
«[...] nel 1991 Wolfowitz era il sottosegretario, ossia il numero tre del Pentagono. A quel tempo mi disse: “Abbiamo 5 o 10 anni per ripulire tutti questi regimi favorevoli all’ex Unione sovietica, la Siria, l’Iran, l’Iraq, prima che la prossima superpotenza emerga a sfidarci”».
L’Amministrazione Bush ha iniziato il programma. Sono stati
riscontrati degli ostacoli, Barack
Obama l’ha rivisto facendolo diventare meno arrogantemente unilaterale e puntando a
coinvolgere forze locali di opposizione, l’Onu e gli alleati (ed è solo per questo che si è
preso il premio Nobel per la Pace) e l’ha aggiornato con lo Yemen, il Pakistan
occidentale, l’America bolivariana e infine l’Africa, e in
condizioni differenti, e con altri
metodi, la stessa Europa .
Il fine è tenere sotto
controllo l’Eurasia, perché come ricordava la classica “dottrina Brzezinski”, nel nostro
supercontinente c’è il 75% delle risorse energetiche del pianeta, il 60% del prodotto
interno lordo mondiale, ci sono le sei maggiori economie dopo gli Usa, i primi sei paesi
dopo gli Usa per spese militari e tutte le potenze nucleari oltre
gli Usa. Infine l’Eurasia
comprende il 75% di tutta la popolazione mondiale tra cui le superpotenze demografiche
di Cina e India. Zbigniew Brzezinski negli anni ottanta aveva già concretizzato
le sue convinzioni trasformando l’Afghanistan in una trappola dove gli Afgani erano
l’esca e i Sovietici i topi. Il risultato furono due milioni morti
e una tragedia umanitaria di
proporzioni bibliche, nonostante che Brzezinski fosse Consigliere per la
sicurezza di Carter, forse il presidente Usa che più sinceramente
ha
creduto nei diritti umani.
Evidentemente ciò non è bastato a far assumere a questo concetto un carattere
universale e non geopolitico. Ma la possibilità storica di intervenire in modo più
deciso e assertivo in Eurasia si è aperta clamorosamente con il collasso dell’Unione
Sovietica. Dopo il crollo del Gigante Rosso, l’Europa Orientale, i Balcani, l’Asia Centrale
e la zona del Caucaso Meridionale sono diventati all’improvviso un
immenso terreno di conquista. I Paesi transcaucasici e
centroasiatici non solo uscivano dal
settantennale abbraccio del potere sovietico ma uscivano dalla bicentenaria soggezione al
potere Russo. Uno spazio immenso di manovra come non si vedeva da duecento anni
a quella parte, dove niente era stabilito in anticipo. Certo la Russia partiva per molti
versi in vantaggio, ma per altri versi era la sfortunata erede di una bancarotta storica.
2. Il presidente
democratico Clinton aveva ben chiari i punti fondamentali di questa strategia e l’intervento
Nato contro la Serbia lo aveva testimoniato. Quell’intervento era stato deciso quando la
crisi cecena aveva mostrato che la Russia faceva fatica a venire a capo anche solo
di una guerra locale e limitata. Ma se i primi pilastri della geopolitica eurasiatica
degli Usa erano quindi stati posti durante la seconda parte dell’era Clinton,
soltanto con l’amministrazione Bush si era entrati nel vivo.
L’ideologia, gli
interessi personali o di lobby e anche le singole personalità hanno
voce in capitolo negli eventi
storici, ma ciò che è interessante capire è se le varie forze e condizioni che insistono
su un momento storico a un certo punto “commutano”, come si dice in
matematica, ovvero danno luogo a un’equazione funzionale, cioè a quella combinazione che
Hegel compendiava nel concetto di “astuzia della Storia”. La junta petrolera di Bush
sembrava confermarlo, perché era stata messa in sella proprio per venire incontro a due
ordini di motivi.
Il primo riguardava il
relativo declino economico americano e la situazione di stagnazione dell’economia
mondiale, con la conseguente necessità di mantenere il predominio anche, se non
soprattutto, con strumenti extraeconomici. Fino all’inizio dell’amministrazione
Bush, i capitali drenati dagli Usa sulla base della forza del
Dollaro erano riusciti a sostenere
relativamente la domanda e, soprattutto, a innescare una finanziarizzazione globale
dell’economia sotto controllo americano e inglese e alle spese dei “Paesi in via
di sviluppo” dai quali preferibilmente si traeva profitto con la gestione del debito. Lo
scoppio della bolla borsistica clintoniana mise a nudo l’entità della crisi sistemica,
rifacendo emergere il substrato di stagnazione.
Il secondo motivo era il fatto che
l’emergere di giganteschi competitor internazionali non permetteva
di scaricare all’esterno
come prima le enormi contraddizioni che si erano create. Il mondo capitalista occidentale
doveva trovare i mezzi per assorbire le eccedenze di capitale monetario e di mezzi di
produzione o distruggerle nel modo più controllato possibile per ricavarne il massimo
vantaggio strategico e senza esitare a utilizzare strumenti brutali servendosi
inevitabilmente del potere dello Stato, “violenza concentrata e organizzata della
società”, sotto forma di repressione interna e di aggressioni
militari esterne.
Queste dinamiche escludono
il concetto di “impero” in quanto “potere sovranazionale”, che
deve essere invece ricondotto
al concetto di fase di “unica superpotenza rimasta”.
Il cerchio
teorico non quadra
1. Il lato empirico
dell’analisi è dunque basato su fatti evidenti. Meno evidente è
il suo status teorico. Se
Giovanni Arrighi in “The Long Twentieth Century. Money, Power and
the Origins of Our Times”
esplorava i cicli sistemici monocentrismo-policentrismo del capitalismo mondiale,
partendo da Marx ma oltrepassandolo, Samir Amin, ad esempio in “Oltre il capitalismo
senile”, oppure nel saggio storico-teorico “Oltre la
mondializzazione” o quello più
teorico-metodologico “Le fiabe del capitale”, sosteneva che oggi
saremmo in presenza di un sovrastante
schieramento capitalistico (la Triade imperialista Usa, Europa, Giappone) senza
nessuna potenza alternativa all’orizzonte, grazie al suo controllo dei cinque
monopoli (controllo ribadito dalle guerre statunitensi, che assumevano quindi un
carattere di fatto coloniale) e grazie alla centralizzazione di capitali che può far
pensare solo a un imperialismo in condominio, seppur strutturato gerarchicamente.
Per alcuni versi Samir
Amin è più aderente agli schemi marxisti poiché propone lo scenario di un sistema
capitalistico tutto sommato unificato, la cui “senilità” (leggi “contraddizioni interne
epocali”) lo rendono avido di risorse naturali e finanziarie, dipendente dal controllo
di nuovi spazi geografici e quindi, alla fine, oppressore del Sud del mondo oltre che
del proprio proletariato. Un capitalismo dove l’esclusione prevale sulle possibilità
di inclusione e che ormai ha bisogno di chiudere sempre più gli spazi democratici.
Giovanni Arrighi vede al
contrario il peso dei processi di accumulazione capitalistica spostarsi con decisione
verso l’Oriente asiatico e il suo epicentro: la Cina. Tuttavia la possibilità di un nuovo
ciclo sistemico di accumulazione è sottoposta a una serie di interrogativi a partire
dalla constatazione che si è in presenza di una situazione complicata che vede gli
Usa potentissimi sul piano militare, diplomatico, politico e culturale e la Cina
potentissima su quello economico e finanziario.
Una prolungata divergenza di fattori
inedita.
2. Nello schema di Amin la
lotta di classe fa la sua ricomparsa sotto la forma composita di lotta dei
popoli oppressi del Sud del Mondo, delle classi subalterne dei paesi emergenti e in
posizione quasi ma non totalmente paritetica, delle classi dominate del Nord del Mondo, in un
quadro teorico però ormai differente dal vecchio “terzomondismo”.
In Arrighi le
contraddizioni principali nel sistema capitalistico sono dovute al
feroce conflitto (sostanzialmente
di potere) tra differenti segmenti e schieramenti capitalistici, alleati in determinate
fasi con differenti poteri territoriali, conflitto che è insito
nella logica stessa del
capitalismo. In questo quadro le lotte delle classi subordinate non
hanno storicamente un
ruolo univoco. Se all’inizio della crisi del precedente ciclo sistemico, cioè durante
la Lunga Depressione 1873-1896, esse hanno ricevuto l’impronta dalla lotta
intercapitalistica, e si sono politicizzate in direzioni differenti parallelamente alla
politicizzazione di quel conflitto, viceversa nella crisi sistemica attuale sono state esse
stesse a condizionare il conflitto intercapitalistico e l’agenda
di gestione della crisi.
Arrighi attenua il legame
tra i meccanismi di riproduzione allargata del capitale e l’industrialismo. Da qui
un’attenzione particolare sul ruolo svolto dalla finanza, al di
là delle sole funzioni di
debito pubblico e di credito, nazionale o internazionale, analizzate da Marx.
Samir Amin invece è più
legato all’analisi marxista del capitalismo come essenzialmente coincidente
con l’industrialismo, la cui logica è spiegata dal concetto, per l’appunto, di “modo
di produzione”, ovviamente nel senso marxiano che è innanzitutto quello di
sistema di rapporti sociali di produzione. Per Amin la finanziarizzazione del
capitale è quindi indice della senilità del capitalismo, della sua intrinseca tendenza alla
centralizzazione e alla sovraccumulazione. Tendenza che le lotte popolari potrebbero
limitare, limitando l’estrazione di profitto.
Le analisi di Arrighi e
quelle di Amin divergono quindi su punti importanti. Questa divergenza può essere
però considerata insanabile solo se ci si pone da un punto di vista fondazionale,
assiomatico. Penso invece che lo schema interpretativo di Arrighi, se sufficientemente
sviluppato, possa sussumere gran parte di quello di Amin, inserendolo nei loci
storici e geografici che esso di fatto descrive. Se non ci si
emancipa dal punto di vista
fondazionale sarà difficile fare analisi e proposte convincenti.
Bisogna affrontare questo
compito avendo il coraggio di lasciare alle spalle la sicurezza fornita dai prontuari
marxisti, sia ortodossi che eterodossi, evitando le trappole identitarie. Una richiesta
pesante, anche in termini emotivi. In termini sociali e ideologici qualcosa di
peggio che proclamarsi Protestante nel bel mezzo del Concilio di Trento. Staccarsi dal
concetto, non laico ma teo-teleologico, di “lotta di classe” o
di “lotta dei popoli
oppressi” è come rompere gli ormeggi e infilarsi in un mare in burrasca pieno di Scille e
di Cariddi (socialismi indentitaristici, nazionalismi, spiritualismi e
culturalismi di varia e spesso lugubre provenienza; oppure,
brutalmente, vendersi al miglior
offerente capitalista, opzione quanto mai affollata).
Ma dall’inizio del
Millennio a oggi le cose sono cambiate in modo talmente profondo che non è più possibile
nascondersi, tirarsi indietro o far finta di niente.
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